lunedì 15 giugno 2009

Bene

Adesso che ho messo qui tutta la legna potete appiccare un bel fuoco e far venir su la cocente fiammata che scalderà la pentola dove preparerò la mia letteratura.

Tornerò a scrivere quando ne sarò capace.

Grayd Poland [Parte #2]

«La donna aveva il viso sfigurato. È stato terribile, Francis era più pallido del cadavere. Non ho avuto il coraggio di chiedergli chi fosse. Chi fosse per lui, almeno» dissi.
Odren, caro amico di ormai vecchia data e bianca chioma, con cui ero solito confidarmi e bere qualcosa al Dan Powls Bar della strada centrale di Glindsburg, ordinò due whiskey irlandesi, di cui non ricordo il nome, ma penso che la gradazione alcolica non me la toglierò facilmente dalla testa. E dalla bocca.
«Osceno. Disgustoso. Sembrava l’avesse morsa qualcuno, più volte. Lavorare insieme alla polizia mi fa sempre sprofondare in pensieri di scure origini».
«Dipende tutto dal modo in cui vedi le cose, Grayd».
«Questa cosa qui me l’hanno già detta, è vecchia. Ho sentito queste stesse parole da migliaia di bocche diverse con migliaia di accenti e cadenze diverse. Lo so».
«Io non sto parlando di vedere un fatto negativo come qualcosa di positivo, bada bene, avveditene, non pensare che io faccia certi errori, non finché la mia vecchiaia sarà così giovane da essere ancora saggia. Perché il futuro è oscuro e non possiamo comprendere tutte le scelte del destino, e da una tragedia può nascere una catastrofe, e da una catastrofe possono nascere miliardi di piccoli mondi in cui tutto va bene, anzi va meglio di prima, e... eccetera, eccetera. No, no, non voglio parlare di quello».
«Vai a fare il predicatore tra quelli che vedono la vita come uno schifo ignobile e vai con fare altrettanto critico verso chi annuncia il bene e l’eterna, inesistente, felicità».
«Ma vedi, la vita è uno schifo ignobile, ed è pure il brodo dove chi arde di anelata felicità si crogiola; La felicità non esiste. La felicità esiste. La felicità può essere tutte queste cose, perché qualcuno decide quale di queste può essere. Tu, io. Loro. Tu sai cosa vuol dire esistere? Io no. Ma non serve. Credi che serva?»
«Significa che…»
«Cosa? Che c’è?»
«Sì, cioè, che…»
«Che lo puoi vedere».
«S…beh, no, no…»
«Certo che no. Il mondo è tutto dentro di noi. Credi che il male venga da fuori? Credi che esista, soprattutto? È la parte di noi che non controlliamo, che ci gioca scherzetti da non poco. Ogni volta che il mondo esterno è atroce e confuso, è il mondo interno, che è atroce e confuso. Il mondo esterno non ci riguarda. Nemmeno possiamo andarci, lì. Ti piacerebbe? No. Non ti servirebbe, non potresti. Smetteresti di essere te. Smetteresti di essere qualcosa, probabilmente. L’universo non esiste, e non sa che noi esistiamo, perché noi, noi, un giorno, abbiamo detto, noi esistiamo».
«Lo abbiamo solo detto, ma è vero, come puoi vedere».
«Il problema è piuttosto l’idea che si è sviluppata in noi di questo verbo. È diventato qualcosa di universale, e invece è solo umano. Mi accorgo che sia difficile da capire, ma non importa, credo di aver gettato in te un seme di qualcosa».
«Ma se ciò che vedi non esiste, dove lo trovi tu, il senso?»
«Non lo voglio trovare. Questo è il senso. Solo che non volendo trovarlo si apre la porta del mondo esterno. All’inizio sembra bello, ma poi diventa insopportabile. Nel mondo interno il senso esiste, solo che nessuno lo conosce né lo può conoscere. E un giorno tutto questo non ci sarà più, unico e sufficiente motivo per quale tutto è lecito che esista, e per il quale nessun senso ha il lusso di esistere. Oh, ancora quel verbo».
Arrivarono i due whiskey, planando su di un vassoio portato da una cameriera, direi, esterrefatta ma in maniera ben camuffata. Con Odren era facile assistere a situazioni simili.
«Tra parentesi…mica volevo parlare di felicità, io».

martedì 2 giugno 2009

Grayd Polan [Parte #1]

«Signor Polan»
Mi salutò il commissario. Aveva i capelli spettinati: un mucchietto senza forma bianco e nero, segno che vi aveva più volte passato la mano, forse per pensare meglio, o per il disgusto, o per la paura. E dimenava con la mano sinistra quel suo cappello bruno, a ritmo, senza sosta, tanto che mi diede un po’ fastidio. Sorrideva, ma stringendo le labbra in un ghigno tipico di chi vorrebbe adottare altre espressioni, ma certe circostanze impongono determinati comportamenti e del resto, non mi vedeva da tanto tempo, anzi, in qualunque altro frangente mi sarei stupito della mancata stretta di mano.
«Mi fa…piacere rivederla»
A esser sincero, non saprei dire perché, ma stava misurando le parole in maniera inequivocabile e sospetta. Certo, l’aria gelidamente densa di quel posto era probabilmente responsabile delle mie sensazioni. Avete presente quelle pinete in cui passa ogni tanto quel birbante sapore di muschio e odore di resina? Dal suolo accarezzato da tappeti di sassi, erba e ceppi, e funghi e rametti, dove i sentieri danzano e si confondono, e le foglie secche parlano solo del muto autunno. Ora, pensate alla notte, e a quanto potrebbe l’ombra di una pineta mutare in un’orrida nebbia scura che si attorciglia attorno ai tronchi e si deposita come fumo pigro sulle radici che serpeggiano nel terriccio e sotto le foglie. Avrete il posto dove fu assassinata Edna Auderville, e dove ne fu rinvenuto il corpo, nel preciso punto in cui ora il commissario Francis D’Owes Dowell mi fissava da languidi occhietti del colore dell’oceano in burrasca. E, sì, a questo punto volli vedere con i miei occhi.
Non fu, con mia sorpresa, uno scempio di gravi proporzioni: il delitto si limitava a un corpo biancastro, freddo e seminudo, senza vita e macchiato di un innocente, precoce rosso. Dowie, così lo chiamavo, dai bei tempi della gioventù, non aveva ragione d’essere così pallido e, a quanto mi parve, forse, proprio terrorizzato. Non ne aveva ragione perché ricordo assai bene quante ne aveva viste di donne, e di uomini, e anche bambini per tragica sorte, supini, col ventre immobile, e la carne incolore.
«Niente notizie sull’assassino, vero?»
Chiesi. Oh, beh, come minimo meritavo una risposta, una risposta che l’immobile espressione di Dowie, avvolto ermeticamente nell’impermeabile come per proteggersi da qualcuno, non mi diede. Si limitava a fissare me e il corpo alternativamente, cosa che mi turbò abbastanza. Poi volsi lo sguardo di nuovo al corpo, accovacciandomi, ed ebbi un forte senso di repulsione, e il violento istinto di saltare in piedi e correre via.
Una parte del collo, quella che rimaneva nascosta, era stata tranciata. Staccata. Morsa, constatai. E l’espressione del commissario fu chiara. Forse feci un piccolo balzo all’indietro, perché sembrò accorgersi della mia scoperta.
«Dicono sia stata una bestia, una bestia bella grossa, con…con grossi denti»
Mi disse. Ma si sentiva, che non ci credeva, vero o falso che fosse, la sua voce era acuta e leggera, e un orecchio attento poteva sentirla vibrare dalla voglia che aveva di darsela a gambe. Ripresomi, analizzai meglio la scena.
Di sangue ce n’era molto, com’è ovvio, un collo reciso non può che produrre pozze di sangue. In quel caso, però, la nebbia, il buio e il terriccio nero smorzarono il mio disgusto. La vittima era a pancia in giù tra le foglie, con ancora quella che sembrava una gonna stracciata. Non si trattava di una bestia feroce, pensai. Una bestia feroce non strappa interamente un vestito, semmai lo riduce in brandelli. E di brandelli non ce n’erano, da nessuna parte. Ciò che mi colpì in maniera particolare fu la somiglianza tra la ferita della donna e la forma tipica dei morsi, una serie di mezzelune disposte ad arco.
«Tieni, guarda se c’è qualcosa…»
Mi porse una torcia elettrica, senza aggiungere altro. L’incompletezza delle sue parole cominciava a preoccuparmi. Evidentemente, comunque, voleva che ispezionassi per bene la scena del delitto. Badate bene: non sono un detective, né tantomeno un laureato in criminologia, o chimica. Ero solo un amico di Dowie, che in quel momento si trovava lì per dargli una mano un’altra volta, come aveva sempre fatto. Benché ora Francis sembrasse l’incarnazione del panico. E non sapevo perché.
«Che c’è, Dowie, mi sembri un morto»
Gli domandai mentre ispezionavo il corpo e il terreno, senza dare un vero e proprio tono interrogativo. Anche se in effetti avrei dovuto evitare l’ultima parola. Tolsi con delusione il fascio di luce da una foglia che mi era parsa in tutto e per tutto una possibile arma del delitto, e, non sentendo alcuna risposta mi voltai.
Sembrò sorpreso che mi stessi rivolgendo a lui.
«Io? No...oh diamine, lo senti anche tu questo freddo no? Non mi piace stare qui, non mi piace per niente, sembra di stare in una cella frigorifera…» se non sbaglio rise «guardati intorno, voglio dire…come fai a non star male?»
No, non era solo il freddo, o il buio, o il cadavere. Continuava a fissare il corpo e a guardare me, e guardarsi intorno. Tremava, violentemente ora, e di nuovo guardò la donna, e me, e capii in poco più di un istante che moriva dalla voglia di sapere chi era quella donna. Era a faccia in giù, non l’aveva ancora girata e guardata, aveva preferito lasciare a me il compito. Evidentemente non ne aveva il coraggio. Semplicemente lui quella donna la conosceva.

lunedì 25 maggio 2009

9

Sono uno 0,9 che cerca di arraffare tutti i 9 che può per sembrare un 1 ed essere meglio allo stesso tempo.

martedì 19 maggio 2009

Un vecchio piccolo racconto

In una città lontana lontana, esisteva un gracile bambino silenzioso.
Egli era silenzioso perché tutti parlavano troppo e lui non faceva a tempo a rispondere a tutti quanti. Così aveva deciso che per tutta la sua vita avrebbe soltanto ascoltato.
Un bel giorno, il suo gatto, Scamandrio, si avvicinò a lui, mentre era seduto in camera sua, pensieroso e triste. Aveva cominciato a odiare la gente perché non lo capiva, odiava il mondo perché lui, non lo capiva. Il gatto attirò l’attenzione del bambino, che iniziò a fissarlo.
“Scommetto che ci sono tante cose belle che puoi dire.” Disse Scamandrio.
“Sono tutti troppo rumorosi. Le mie parole si perderebbero come polvere al vento.” Rispose.
“Non dire così, sono sicuro che c’è una cosa che vuoi dire.” Esortò il gatto. Ma vide che il bambino non rispose, allora chiese: “Non sei sorpreso che io sappia parlare?”
“No.” rispose il bambino.
“Eppure sono sempre stato zitto, come tutti gli animali.” Disse Scamandrio.
“Anche io sono sempre stato zitto, Scamandrio, ma come vedi, so parlare benissimo.” Rispose il bambino. Il gatto rimase zitto a lungo, riflettendo.
“Sono sicuro che c’è qualcosa che vuoi dire. Avanti, dillo!” esclamò il gatto.
Il bambino non rispose, ma il gatto capì che invece aveva molte cose da dire. O per lo meno, una, e molto chiara.
“Vieni con me” disse il gatto “ti porterò dove il mondo palesa.”
Allora il gatto si incamminò, silenzioso e inesorabile, uscendo dalla camera, seguito dal bambino, uscendo dalla casa, attraversando la strada. Entrarono in un piccolo bosco senza luce e senza rumore, dove una piccola grotta giaceva indisturbata sotto ai piedi del bambino e sotto le zampe del gatto.
“Buttati qui dentro” disse il gatto, indicando con la zampetta un buco tra le foglie secche.
Il bambino vi si buttò e il gatto parlò.
“Questa è la Stanza” disse “Chiedi qualcosa e sarà esaudito.”
“Io vorrei che morissero tutti.”
Ogni suono cessò. Il bambino uscì dalla grotta e corse in mezzo alla strada. Le macchine erano ferme, niente guidatore, le biciclette per terra, senza ciclista, le case erano vuote, i parchi erano vuoti, mai più l’ombra di un essere umano, eccetto quella del bambino, si sarebbe rovesciata al suolo. Egli corse, dappertutto, cercando, scoprendo mano a mano che l’umanità intera non esisteva più. Banche, palazzi, piscine, negozi, tutto vuoto. Non c’era più nessuno. Il bambino si sedette e si immerse nei suoi pensieri. Era soddisfatto di ciò che aveva chiesto.
Ma all’improvviso sentì una voce.
“Mi senti?” Chiese la voce di nessuno.
“Chi è?” Chiese il bambino, interdetto.
“Sono Dio! Per la miseria, sei il primo umano con cui riesco a parlare! C’era un tale fracasso…”

venerdì 8 maggio 2009

Il Mozzo #3

«Mozzo!»
«Comandi, Capitano!»
«Guarda le stelle e dimmi: quante sono?»
«Bella domanda! Cento?»
«Di più temo.»
«Mille?»
«Molte, molte di più.»
«Millemila mila?»
«Ora non farneticare mozzo, il punto è un altro: stiamo seguendo la rotta esatta?»
«Certo, verso la costellazione del Sagittario.»
«Sei sicuro?»
«Certo!»
«E dimmi, quale sarebbe?»
«Ah…eh…uhm…quella…quella là…lì…no…oddio che vergogna guardi proprio non lo so mi dispiace LA SCONGIURO NON MI BUTTI IN MARE!»
«No, no, anche perché, come puoi vedere, razza di idiota, ci siamo incagliati nella spiaggia di un’isola da stanotte e nessuno se n’è accorto.»

«Mozzo.»
«Eccomi qui!»
«Non so se hai notato che stiamo imbarcando acqua.»
«Signorsì Signore, ma ho prontamente fatto dei buchi nella chiglia per farla uscire.»
«Ah, e…


…uccidetemi.»

«Mozzo, catapultati qui.»
«Ci sono, signor Capitano!»
«Ripetimi ancora una volta dove stiamo andando.»
«Ci stiamo dirigendo verso il polo nord, signor Capitano!»
«Bene, e a far cosa?»
«A intraprendere vantaggiosi scambi commerciali.»
«Sì? Con chi?»
«Non lo so.»
«Certo che non lo sai! Non sai nemmeno che stella dobbiamo seguire.»
«…Era mica la stella polare?»

Ti sei perso [Parte #2 (Capitolo 4)]

Capitolo Quattro

Tutto sembra essersi rischiarato, ora, come quando ci si ridesta da un sogno. Essere lì, in riva al mare, su una spiaggia su cui non sei mai stato, ti è del tutto normale, anzi, hai la sensazione, meravigliosa, di essere tornato da un luogo remoto, attraverso un viaggio che non hai percorso, ma di cui hai raggiunto l’arrivo.
Seduto e accovacciato, con le braccia poggiate sulle ginocchia, giocherelli con le dita, mentre il tuo sguardo si smarrisce nell’orizzonte dell’oceano. Ed è adesso che maggiormente ti inebria lo sciabordare della risacca, e il sereno cantare dei gabbiani; e il leggero vento che scompiglia le frange delle palme.
E…la voce di lei, di nuovo lì.
Come dove? Girati! Guarda!

«Guarda. Puoi vedere il sole. Non è rilassante poterlo osservare a occhio nudo? È presto. La notte ha portato via la sua ombra solo da qualche minuto. E ora l’alba ci riscalda!»

«Nora…» provi a parlare, ma non lo fai. Non ne hai motivo. Non ne hai bisogno. Però l’idea che lei sia lì assomiglia tanto a un fuocherello che ti arde sotto il petto. Fissa il suo sguardo dove poco fa lo avevi anche tu, e torni a guardare. Sì, il sole è ancora assopito. Ma tra poco aprirà gli occhi, e la cosa più bella e splendente non sarà più esso stesso, ma tutto ciò che illumina. Compresa lei.
E cominci ad avvertire dell’angoscia, e non te lo sai spiegare. Pensandoci bene, la sua espressione non ti conforta. È insolitamente normale e gelida, al tempo stesso.

«Il mondo non mi piace più» disse Nora. «Cammini nel buio aspirando a quel piccolo brandello di luce che scorgi in lontananza, che devi schiacciare le palpebre per distinguere, che ti canzona, talmente ne sei dannatamente lontano, talmente ti è irraggiungibile, e sia ringraziato il Cielo, lo raggiungi, un giorno o l’altro; e con la facilità con cui volano via i petali di soffione, può sparire in un -soffio-. E il ritorno al passato non è semplicemente lo scendere da un pendio, ma una violenta caduta».

«Lo riconosco, qualcuno si diverte soffiare su piccoli semi alati, con noncuranza, beffardamente, ma è solo una chioma leggera quella che se ne vola via, e il gambo solido riesce a rimanere nella sua terra.
Ci sono cose che non si possono uccidere, ma solo addormentare; una di queste è il sorriso».

«Ma chi se ne importa del sorriso, non vedi che l’oceano…» cambiò espressione, e si fece quasi irritata, «…su cui navighiamo con queste zattere di legno marcio e tarlato, è costantemente riempito dal dolore dei nostri occhi? In ogni momento c’è qualcuno che piange…»

«In ogni momento c’è qualcuno che piange, e in ogni momento c’è qualcuno che ride. Non troverai mai bene e male, né in armonia, né in antitesi; piuttosto essi nascono e muoiono di continuo dentro ognuno di noi. Ogni buona azione può portare conseguenze negative, e chi può dire quante cose buone possono nascere anche da un delitto?»

«Ma perché dobbiamo essere così fragili, e calpestati! Stritolati da ciò che non sappiamo! Cosa bisogna fare per “esserci” davvero, per non sparire! IO NON VOGLIO SPARIRE!»

Non immaginavi che potesse rivelarsi così angosciata; era ciò che di più spensierato tu avessi mai incontrato sulla tua strada. E ora si sta riducendo quasi in pianti disperati per motivi così reconditi che, chiunque, dovrebbe avere ormai superato.
Ma non aspettare oltre, e dille ciò che le vuoi dire. Lei non sparirà mai, non è così?

«Sì, forse sparirai. E pensa quanto atroce sarebbe la tua vita se dovesse durare per sempre; e se fosse facile. Come hai detto tu stessa, dall’alto si cade facilmente, e il tonfo è sordo e doloroso. Ma più lunga e impervia è la risalita, più alta è la meta; e più grande è l’orizzonte e meraviglioso è, tutto il resto, da lassù.
Tu sei questo, Nora: sei vita grazie alla morte. Ed è nullo il potere che lei ha, quando a “sparire” è qualcosa che ormai si è insediato in altri, che essi a loro volta faranno germogliare in altri e altri ancora. Il tuo fiore non appassirà, Nora. Tutti i giorni la secchezza di quel fiore che s’apre in tutti, e quel buio, nascono, e perseverano, e tutti i giorni li sconfiggiamo, ce ne liberiamo, li soffochiamo, li imprigioniamo, e chi può dire quando la battaglia finirà, e chi può dire che un giorno questi “nemici” non si arrenderanno per conto loro? E chi può dire se a quel punto anche noi non saremo troppo vecchi e rinsecchiti, e inutili, per poter continuare a esistere facendone semplicemente e serenamente a meno?
No, la verità è solo che noi, noi due, siamo qui, e ora. E benché il futuro sia già qui, come puoi vedere, quel futuro è ancora giovane e muto; sta trattenendo il fiato, e, forse, si rimetterà a soffiare via i nostri leggerissimi petali quando saremo noi stessi ad esserne finalmente stanchi».

I suoi occhi si stanno scaldando, ora ti guardano. Non senti che qualcosa dentro di lei sta tremando? C’è un piccolo nascondiglio, in lei, dove una forza innata sta cercando di divincolarsi da pallide catene, dove un abbraccio era nel buio, e quel buio lo hai spazzato via. E ora puoi vedere solo i suoi capelli, e sentirla addosso, e non è così male. E il sole è di nuovo alto, e ora stai toccando qualcosa di splendente.

martedì 5 maggio 2009

#3

Nessuno vive abbastanza per vedere la propria morte.

giovedì 30 aprile 2009

Pioveva

Pioveva come non avevo mai visto piovere in tutta la mia vita. Non era solo l’acqua che veniva giù, a essere interminabile e tetra, inesorabile, picchiettandomi sull’impermeabile, era piuttosto la soffocante e densissima aria che strangolava qualsiasi forma e colore. Tutto era orribilmente grigio e nero, triste e spoglio, contorto e morto. Le nuvole ruggivano come imbestialite, mentre le gocce si facevano più grosse, più pesanti, e più cattive, quasi avessero volontà propria e trovassero soddisfazione nel punzecchiarmi il viso. Il fiume mi serpeggiava accanto, nascondendo la sua fine in un orizzonte oscurato da quell’atmosfera insopportabile, era un continuo saltellare di goccioline, innumerabili, irrequiete e arrabbiate. L’acqua sembrava lanciare le sue maledizioni contro il cielo.
Mi misi a correre molto velocemente, calpestando radici ora esposte ora nascoste, sassi infangati e coperti di muschio, e animali morti. La montagna da cui scaturiva il fiume era esattamente davanti a me, altissima, con la vetta persa al di sopra del manto nero. Ormai stava per mettersi a grandinare, e cominciavo a calpestare pezzetti di ghiaccio coi miei stivali zuppi di fango. Là c’era un riparo; dovevo giungere ai piedi del monte. Percorsi il fiume costeggiandolo sulla sua riva destra, lo sguardo basso e avvolto nel cappuccio, tenendo testa a quella terribile frenesia di acqua e ghiaccio che mi tormentava. E correvo, mentre imperversava la tempesta più ardita. Il vento mi fischiava parole di minaccia; mi gelava il volto, e fischiava, e ululava. E ora era difficile camminare.
Ma la vista del puntino luminoso che tante volte ho chiamato casa, quel riparo sicuro e al di fuori di quel tremendo freddo, attraeva a sé i miei passi, li guidava come un burattinaio governa il burattino.
Ora la terra si faceva aspra e contorta, costellata di pozzanghere anche profonde, così che mi ritrovai ben presto a dovermi ripetutamente scuotere per pulirmi dalla fanghiglia. E constatai con dolore che la grandine si faceva davvero martellante, e grossa. Mi sembrava che mi stessero lapidando. Fortunatamente il vento cambiò direzione, assistendomi nella mia corsa, cosicché ora la pioggia mi arrivava dritta nella schiena. Ma procedevo più speditamente, come se quel qualcuno la cui ira aveva prodotto tanta cattiveria infernale, volesse vedere fino a che punto mi sarei spinto, dove sarei arrivato, come mi sarei salvato. Raccolsi la sfida, naturalmente, correndo e scavalcando la moltitudine di ostacoli. Il puntino luminoso ora era la debole ma ben distinguibile luce proveniente dalla finestra centrale, irradiata dal falò nel caminetto. Fortuna che era ancora acceso, così mi sarei scaldato più in fretta. Sentii la salvezza vicinissima, e mi vi scagliai. Per poco non inciampai, ma arrivai finalmente sano e salvo al mio uscio. Feci per aprire la porta, ora rassicurato e tranquillo, forte della mia vittoria sugli avversi rovesci. Troppo rilassato, forse, perché ritrassi la mano ed ebbi la capacità e il coraggio di mettermi a riflettere; anche se di motivi apparentemente non ce n’erano. Guardai in alto. Un frammento di quel telo nero saltò via, quasi qualcuno l’avesse tagliato, le nuvole si squarciarono in un breve e piccolo scorcio che fece perdere il mio sguardo nel caldo azzurro. E poi le nuvole nere lo divorarono di nuovo, e scomparve.
Ma certo, mi dissi. Entrare in casa vorrebbe dire solo coprire la paura con una sicurezza artificiale ed effimera. Vorrebbe dire combattere. Essere avversari del pericolo. Perché invece non trovare un accordo? Perché non provare a trovare quel buono che c’è anche in un pericolo? Anche in un tale trionfo di assurda violenza naturale?
Andai dietro la casa, dove cominciava il sentiero che conduceva su per i pendii della montagna. Provai a scrutare la cima, ma vidi solo un enorme cono mozzato a un certo punto da una lama di bambagia sporca. Ora ero io a sfidare quella cruenta forza; e a sua volta raccolse la sfida. E lo sentii. La grandine era come uno sciame di lame ghiacciate. Mi incamminai su per il pendio, e più salivo, più ero costretto a guardare in basso o a ripararmi sotto qualche roccia, perché la cosa cominciava a farsi davvero insopportabile. Ma ero animato da una volontà a me sconosciuta, eppure così mia: una volontà di vittoria che ora mi attanagliava e guidava le mie gambe più della precedente speranza di sicurezza. Mi arrampicai; scivolai innumerevoli volte, e altrettante volte saltavo, mi aggrappavo, strisciavo, su per sentieri e impervie stradine rocciose. I rovesci erano ora come tanti uomini che mi volevano morto, picchiandomi in ogni direzione, anche in orizzontale, nelle costole e nelle gambe.
Mi addentrai nella nuvola nera. Al suo interno ogni frastuono di scroscio sembrava essersi placato; suonava più come il ricordo di un sogno appena fatto, imbavagliato e soffocato. Anche la strada sembrava più semplice. Spinto da nuovo coraggio mi misi a correre. Si cominciava a vedere un po’ di blu, in tutto quel grigio da cui ero avvolto. E ora dell’azzurro; e una sfera lucente in lontananza, ma così calda, ora. Sbucai fuori impavido e fiero da quell’ammasso di vapore diabolico, con gli occhi chiusi, e li spalancai. E vidi la vetta della montagna, qualche decina di metri sopra di me. E la distesa grigia sotto di me; e il sole lucente, e il cielo azzurro. Respiravo di nuovo l'aria pura, e ogni pericolo era solo un vago ricordo. Sì, mi dissi, oltre le grigie nuvole c’è sempre il cielo azzurro.

martedì 28 aprile 2009

Il Mozzo #2

«MOZZO!!!»
«Ditemi, signor Capitano! Qualcosa non va?»
«Accidenti se non va, ma dico, avete guardato l’albero maestro?»
«Nossignore lo vedo a sufficienza tutti i santi giorni.»
«Allora sarai così imbecille da non esserti accorto che non ci sono più le vele.»
«Per Tritone, avete ragione!»
«E cos’hai intenzione di fare?»
«Cercarle.»
«Dove?»
«Sulla nave.»
«Non essere sciocco, qualcuno deve averle prese. E dal momento che siamo in mare aperto, il furfante si trova sulla nave! Lo faremo parlare con la forza.»
«Ma noi non siamo in mare aperto.»
«Che diamine vai dicendo?»
«Guardate dietro di voi, signore.»
«Per la pinna di Nettuno! Ma siamo incagliati tra gli scogli di un’isola! Come mai non ne sapevo niente?»
«Perché dormivate, signore.»
«Lascia stare, l’importante è ritrovare le vele e andarcene. Le avranno prese degli indigeni questa notte! Chiederemo a loro.»
«Gli indigeni non sanno parlare la nostra lingua!»
«Allora metteremo i loro villaggi a ferro e fuoco. Prendete le armi!»
«Non ci sono più armi.»
«Che mi venga un colpo! E come mai?»
«Temo le abbiano rubate gli indigeni.»
«Allora andremo nei loro villaggi, prenderemo le armi e metteremo tutto a ferro e fuoco. Basta che ritroviamo le vele e ce ne andiamo.»
«Andarcene? A dire il vero siamo arrivati.»
«Vuoi forse dirmi che questa è l’Isola d’Elba?»
«Sì.»
«Chi te l’ha detto?»
«Un indigeno signore.»
«Ma ci sono indigeni all’Isola d’Elba?»
«Certo signore, li ho visti che si portavano via le vele e le armi.»
«Per il cappello di Merlino e il vino di Bacco, perché non avete cercato di acciuffarli?»
«Perché avevano le armi, signore.»

Il Mozzo #1

«Mozzo!»
«Comandi!»
«Dimmi subito dove ci troviamo.»
«In mare aperto Capitano!»
«Sì, ma mare aperto dove?»
«Mare aperto qui, Capitano…mettete la testa fuori dalla nave e guardate voi stesso.»
«Sei un inutile! Chiamami il nostromo.»
«Sì signor Capitano!»

«Comandi, Capitano!»
«Nostromo!»
«Ditemi.»
«Dove ci troviamo?»
«Sulla nave, Capitano.»
«E dove diavolo è questa nave?»
«Sinceramente non lo so, signor Capitano.»
«Andiamo bene, nostromo!»
«Chiedo venia, Capitano.»
«Ma lasciamo stare, stanotte osserveremo le stelle. Chiamatemi il cuoco!»

«Mi avete fatto chiamare, Capitano?»
«Sì, ditemi, cosa si mangia questa sera?»
«Vitello con patate, signore.»
«Su una nave non ci sono vitelli!»
«Avete ragione.»
«Quindi?»
«Patate, signore.»
«Lo sospettavo.»

Stanza

Ho trovato la saggezza e ho trovato la purezza; la bontà e la cattiveria, la forza e la mitezza. Ho imparato l’umiltà e insegnato la grandezza. Ho appreso l’intuizione e la chiarezza. La perseveranza e la critica. La calma e la quiete. Ma conservo il timore. Sono capace di guardare me stesso, e ogni volta che mi vedo qualcosa di me cambia; ogni volta che esco dalla mia piccola stanza di carne in burrasca vedo con gli occhi del divino il corpo ridicolo di assurdo intelletto, immerso come una spugna nel mio continuo reale, e osservo il reale che vi si infiltra, finché si mescola e si fonde del tutto.
E ogni volta che esco sulla terrazza a cui l’uomo non può affacciarsi che per brevi tratti, e vedere uno scorcio dell’orizzonte ultimo, ritorno a me rinvigorito, rinsavito, arricchito. Dalla finestra che dà su me stesso posso morire, e nascere di nuovo, sempre diverso, sempre più quieto, sempre più in alto.
Ma ora sono davanti alla porta, e sto male. La sento vibrare; mi angoscia. Emana il fetore del beffardo e scuro dubbio. Vuole che io la apra. O lo voglio forse io?
Vuole che la attraversi, ma oltre di essa c’è solo ciò che la parola non può dire. O lo penso forse solo io?
Che cos’è quest’”altrove”, quest’aldilà, quest’oltre;
Che cosa mi farà? Il pomello è un'insaziabile bestia che si nutre di angoscia.
Sento le voci di chi non dovrebbe più aver fiato. Ma la porta mente. Odo il chiacchiericcio sommesso dell’oscurità stessa; ma la porta mente. Mormorano i diavoli dell’antico ignoto, e la porta mente. Sto mentendo.

La maniglia fu un freddo e divampante nuovo, nel mio palmo; tirarla volle dire lanciare, gettare via; aprire significò chiudere. Chiusi l’odio e il buio nella stanza senza più me, e uscii. Ciò che vidi non mi sorprese. Ma mi attraversò come un ruscello ardente di dimenticata, rovente vita. Ora avevo tutto, e non desideravo più niente; poiché non potevo più avere niente. E non ne ero spaventato o svuotato; ma colmato e rinfrescato.

sabato 25 aprile 2009

#2

Friedrich Nietzsche è stato l'unico a fare tutto ciò che un filosofo dovrebbe fare: cancellare tutti i valori, valorizzare la sfera passionale, basare la felicità sulla conoscenza, scrivere in un linguaggio incomprensibile, impazzire.

giovedì 23 aprile 2009

#1

Non stupitevi per le coincidenze. Stupitevi per la quantità di volte che non accadono.

Il Gioco

Zez: Oh, guarda Drod, su questo pianeta c’è della Vita!
Drod: Ah sì? E che pianeta è?
Zez: Non credo abbia ancora un nome.
Drod: Allora troviamone uno.
Zez: E che nome potrebbe avere una palla di terra schiacciata?
Drod: …"Terra".
Zez: Suona bene.
Drod: Però non mi piacciono questi cosi grossi e verdi. Cosa sono?
Zez: Non lo so, hanno fauci acuminate e grossi artigli, non ne avevo mai visti.
Drod: Senti, facciamo così, cancelliamo tutto e rifacciamo noi daccapo, va bene?
Zez: Perfetto.
Drod: Guarda, lì c’è un meteorite. È abbastanza grosso. Tu prendilo, io li attiro.
Zez: Ok.
Drod: Venite qui! Guarda quanta roba da mangiare! Tutti qui, tutti qui, è importante!
Zez: Abboccano?
Drod: Stanno arrivando. Avevi dubbi?
Zez: Vabbé, io lancio, eh?
Drod: Lancia.
Zez: Colpiti!
Drod: Quanto fumo.
Zez: Dev’essere colpa dell’atmosfera. Va a fuoco tutto qui.
Drod: Si sta stabilizzando, guarda. Sembra non ci sia più niente di interessante! Possiamo procedere con le nostre opere.
Zez: Di che tipo?
Drod: Non so, avevo in mente di ripopolarlo con un’altra specie vivente.
Zez: Spiega.
Drod: Degli esserini molto più piccoli, però più intelligenti. Intelligenti almeno quanto noi, direi, però molto più ignoranti e più inclini a non prendere l’evidenza delle cosa per quella che è.
Zez: Insomma vuoi creare un popolo di disperati?
Drod: Non ho detto questo. Tu vuoi farlo?
Zez: Sì.
Drod: Troveremo un compromesso. Le combinazioni sono molte, e si può sempre tornare indietro. Hai in mente una forma?
Zez: Potremmo farli simili a degli alberi, solo con meno rami, e con le radici che si muovono. E magari una testa, da qualche parte.
Drod: Per la miseria che schifo. No, no, ci vuole qualcosa di stiloso. Un corpo rosato, morbido, con uno scheletro di ossa. Carne e ossa, di questo saranno fatti.
Zez: Solo carne e ossa?
Drod: Anche sangue.
Zez: E a che servirebbe?
Drod: Per avvisarli quando si fanno male.
Zez: Geniale. E di cosa si nutrono?
Drod: Non saprei, direi…un po’ di tutto. Carne, piante, cose così.
Zez: E acqua.
Drod: Naturalmente.
Zez: A dire il vero non ce n’è molta.
Drod: E allora ce la metto.
Zez: Un secondo! Tra quanto tempo compariranno questi cosi?
Drod: Non lo so, anche subito andava bene, ma penso sia più figo farli evolvere da organismi inferiori. Ci metterebbero qualche milione di anni.
Zez: Allora è inutile mettere acqua adesso. Evaporerà tutta.
Drod: Facciamo così: creo dei grossi pezzi di ghiaccio, così si scioglierà per tempo. E avranno pure acqua fresca.
Zez: Ottimo. Ma veniamo alla parte estetica.
Drod: Pensavo di mettergli peli e capelli da qualche parte. Magari una specie di chioma scura in mezzo agli apparati locomotori…o magari sulla testa.
Zez: Meglio in testa.
Drod: O forse è meglio di no.
Zez: Facciamo che alcuni ce l’hanno e altri no.
Drod: Io direi: capelli per tutti, peli solo per qualcuno.
Zez: Del tipo?
Drod: Non lo so, potremmo fare un genere più peloso e uno meno peloso.
Zez: Non male.
Drod: Quello peloso sarà il Maschio, quello meno peloso la Maschia.
Zez: Non mi pare un granché. Direi di fare: Maschio e Femmina. E ho in mente pure un’utilità per questa differenza. La riproduzione!
Drod: Non ci avevo pensato.
Zez: La Femmina metterà al mondo nuovi esseri, e avrà bisogno del Maschio.
Drod: E sia. E questi due generi si attrarranno tra loro.
Zez: E se non si troveranno, soffriranno!
Drod: Ottima idea.
Zez: E magari al Maschio gli mettiamo un coso lungo che penzola.
Drod: Allora alla Femmina mettiamo qualcosa che possa contenerlo.
Zez: Ottimo.
Drod: Tuttavia mi sembra un po’ fastidioso. Facciamolo accorciabile.
Zez: Ho un’idea migliore: facciamolo corto, ma allungabile.
Drod: Va bene, ma diamo qualcosa anche alle Femmine.
Zez: Che ne dici di una cosa simile ma molto più piccola?
Drod: Ci può stare. Ma deve essere compensato da…
Zez: Una bella palla di carne in mezzo al petto.
Drod: Facciamo due.
Zez: Approvo.
Dred: Perfetto. E accoppiarsi produrrà piacere per entrambi, così non rischiamo che si estinguano.
Zez: Ovvio. Ma veniamo al nome. Che ne dici di “Esseri Rosa”?
Drod: Banale.
Zez: “Carnosi Fallati”
Drod: Non direi. E le Femmine, poi?
Zez: “Scheletri Carnati”?
Drod: Terribile.
Zez: E allora lasciamo perdere. Chiamiamoli come il nostro antico popolo: Esseri umani.
Drod: Non è una cattiva idea.
Zez: Attraverseranno fasi alterne, apprezzando e disprezzando la scienza, deprimendosi e riscattandosi nuovamente e di continuo. Questa sarà la storia.
Drod: Coloro che comandano perderanno la testa e saranno dei tiranni. Questa sarà la politica.
Zez: Avranno bisogno di una guida al di sopra di loro. Che ne dici di un Dio?
Drod: Poco credibile.
Zez: E allora mandiamo un predicatore indiscutibile. Un Messiah.
Drod: Si chiamerà Gesù.
Zez: Mi piace.
Drod: Per guadagnarsi da vivere dovranno ottenere dei pezzi di carta di scarso valore produttivo e altissimo valore legale.
Zez: E magari faticando molto.
Drod: No, solo alcuni.
Zez: Per esempio i laureati.
Drod: Eccellente.
Zez: Le persone ignoranti saranno per sempre serene.
Drod: Quelle colte invece, facciamole tristi.
Zez: E quelle intelligenti saranno felici.
Drod: Maschi e Femmine avranno difficoltà di comunicazione.
Zez: Per quale motivo?
Drod: Voglio che le femmine dicano il contrario di quello che pensano. E voglio che possano covare rancore per sempre.
Zez: E così sarà.
Drod: La maggior parte sarà portata a fare buone azioni credendo di non farlo anche e soprattutto per soddisfazione personale. E questo sarà il cuore del loro altruismo.
Zez: Molti crederanno a Dio e daranno ascolto a un libro e a un vecchio vestito d’oro.
Drod: Il vecchio viaggerà su un’automobile con vetri in Plexiglass.
Zez: La musica sarà l’anima dell’uomo.
Drod: Concordo. Ce ne saranno tanti tipi, e i tipi amati dai figli non piaceranno ai genitori.
Zez: Divertente.
Drod: Filosofi di tutto il mondo cercheranno di spiegare la propria vita, in tantissimi modi diversi, senza accorgersi che il non riuscire a spiegarla sia il senso stesso di ogni cosa.
Zez: Interessante. E i poeti! I poeti riusciranno a esprimere lo spirito più elevato dell’uomo parlando unicamente di banalità.
Drod: La maggior parte di questi poeti sarà costituita da depressi, reietti e disadattati.
Zez: Alcune persone saranno deboli. A queste manderemo disgrazie per renderle più forti.
Drod: Alcuni faranno guerre tra di loro solo perchè reciprocamente convinti di non potersi fidare.
Zez: E infine, ho un’idea un po’ particolare. Facciamo che questi esseri muoiano.
Drod: Diabolico e terribile. Passeranno tutta la propria esistenza chiedendosene il motivo. E nessuno realizzerà mai che lo squilibrio non è da ricercare nella morte, ma nella vita stessa.
Zez: Direi che siamo apposto. Daremo le ultime definizioni durante l’evoluzione.
Drod: Siamo crudeli.
Zez: Ma è tanto divertente.

Così le due massime entità dell’universo si presero gioco di tutti noi.

domenica 12 aprile 2009

Ti sei perso [Parte #1 e forse ultima]

Capitolo Uno

Ti sei perso. Eri sicuro di conoscere la strada, eppure da quando hai cominciato a dubitare di essere sul sentiero giusto hai iniziato anche a perdere l’orientamento e quella tua convinzione di potere, di sapere tornare indietro è drasticamente evaporata. Che tu ti sia smarrito non è più una paura, ma una realtà imbarazzante e inattesa. Gli alberi intorno a te sono tutti uguali, non parlano ma tu sai che si stanno prendendo gioco di te, i rami sorridono, oscillano e ridono, le foglie volteggiano in una straziante tranquillità.
No, la strada deve essere qui, da qualche parte. Non hai camminato molto, no? Non puoi non ritrovare il sentiero, le antiche angosce dei tuoi genitori, dei genitori di chiunque, non possono trovare la loro realtà così, in un lampo, non ora che sei anche piuttosto cresciuto. Ti accorgi che dovrai cercare qualcuno, e ti vergogni un po’, e speri che quel qualcuno passi nelle vicinanze, tra i tronchi, e allora tu lo chiamerai e gli griderai:
«Scusi, mi sono perso, da che parte è la strada principale?»
No? No, forse è meglio togliere la parte in cui dici che ti sei perso, non è il massimo.
«Scusi, da che parte è la strada principale?»
Ma in fondo che differenza fa? Se non sai dov’è la strada è lampante che tu non sappia dove sei, quindi che tu ti sia smarrito. E allora capisci che devi abbandonarti alla condizione di impotenza e cercare disperatamente la strada con qualunque mezzo.

Aspetta, ricominciamo da capo, torna sui tuoi passi: dove stavi andando?
Non lo sai? Devi saperlo tu, sono tue le gambe. Ti hanno condotto fin qui da sole? Per conto loro?
…Forse stavi tornando a casa?
Qualunque cosa stessi facendo in questa foresta, vuoi tornare a casa, è chiaro, qualunque voglia di proseguire è svanita insieme al sentiero. Forse se camminassi in una sola direzione per un po’ di tempo, magari quella in cui il terreno sembra scendere, arriveresti a qualche punto di riferimento, una strada, in teoria, ma andrebbe bene anche un fiume, un ruscello, una capanna, un sentiero.

Ma in fin dei conti ti puoi rilassare, no? Insomma, ti aspetta per caso qualcuno?
No?
Allora hai tutto il tempo di riflettere sul da farsi. Sai che sei arrivato in questa foresta, sai che conoscevi perfettamente la strada, e poi d’un tratto gli alberi t’hanno tirato il brutto scherzo d’esser tutti uguali. Un’eventualità che potevi anche prevedere. Ma tu l’avevi prevista, non è così? Solo che errare è umano, e così ti giustifichi, ma ora l’importante è non perdere la calma. Questa situazione potrebbe perfino rivelarsi tutt’altro che una sconfitta.
Non era prevista, ma che importa? Lascia perdere tutto il resto, esci dalla vita e tuffati in qualcosa d’altro, qualcosa di più, qualcosa che forse è ancora più tuo e proprio di tutti; non hai vincoli, non hai orari, non hai limiti: la massima espressione della tua essenza si realizza in questa pineta.

Eppure non è libertà, quella che senti. Piuttosto un misto di angoscia e affanno: poiché non sai dove ti trovi esattamente e non riesci a lasciarti alle spalle la sensazione che se volessi tornare sui tuoi passi, in fondo, non ne saresti capace. Vorresti abbandonarti alla tempesta di sensazioni che ciò che è intorno a te, incontaminato, muto e assordante, ti trasmette.

Forza, non è difficile: per uscire da una palude è importante non agitarsi. Allo stesso modo, per venire a capo di un problema è bene essere superiori alle ansie e alle paure. Non che tu debba obbligatoriamente esserne estraneo, ma devi convivere con esse nella maniera più oggettiva e consapevole possibile. Abbandonati. Perditi. Tanto ti sei già perso, non farai molta fatica. Lasciati andare e cammina. La calma ti porterà dove la ragione avrà sollievo. Ma per adesso sei solo sensi; istinto; emozioni.

Ti senti un po’ animale?
No che non ti senti animale, trovi anzi che tralasciare ogni barlume di consueta ratio esalti la tua umana natura. Come è possibile tutto questo?
Non lo sai, ma in qualche modo è grazie a questa inusuale e ferina condizione che ti accorgi di riuscire a godere delle minime sensazioni, dell’altisonante silenzio sporco di fruscii, cinguettii, e i cric crac dei bastoncini sotto ai tuoi piedi.

Siediti e goditi questi istanti di sfacciata, legittima e piacevole noncuranza.
Non sarà un divano, ma le foglie sono morbide. Sedendoti hai in qualche modo dato il colpo di grazia alle tue angosce. Hai dato le chiavi all’insolente libertà e lei ha aperto la porta dietro la quale non potevi vederla.
Osservi e guardi ciò che vedi, senza limitarti ad assorbire passivamente; ti accorgi della straordinaria perfezione dei pini. Squadri il tronco, dalla corteccia ruvida, irregolare, sconnessa, muta, nuda, la chioma che si apre, come se volesse stendere le proprie braccia e far vedere a tutti quanto è straordinariamente semplice e complicato. È un peccato che nessuno si fermi mai a notarlo, ma a lui sembra non interessare; giorno e notte, vento o grandine, comunque vadano le cose, lui è lì, imperterrito, tenace, saggio.
Ogni tanto dalle foglie secche spunta qualche verde ciuffo d’erba, che si confonde in lontananza con alcuni sassi, vicino a dei tronchi marci, accatastati…vicino a un muro…di mattoni grigi…

Una casa? Possibile che tu non l’abbia notata prima?
No, non l’hai notata. Era nascosta dagli alberi. Ma ora l’hai scoperta e in meno di un secondo sei in piedi. Là troverai esattamente ciò che cercavi: qualcuno a cui chiedere dove sia la strada. Devi solo sperare che il boscaiolo esca di casa, non te la senti di importunare gli inquilini solo per chiedere informazioni.

Ti sei reso conto che in men che non si dica la tua possente quiete ha lasciato spazio alla speranza; forse le tue angosce erano soltanto zittite, come quando si toglie l’audio, ma erano ancora lì. Volevi negare che ci fossero e ti eri convinto che non ci fossero, ma allora come spieghi che tu sia contento di poter finalmente tornare a casa?



Capitolo Due


Stai cominciando a chiederti chi sono io?
Se non l’hai ancora fatto, lo farai ora, perché ho portato alla tua mente una questione che forse davi per scontata, da quando hai iniziato a leggere.
Fino ad ora ti sei inzuppato delle mie parole, inzaccherato delle tue sensazioni, che tue sono diventate per un elegante e misterioso processo; ti sei immerso nelle mie descrizioni, perfino quando descrivevo te stesso, perfino quando contro ogni razionalità e contro ogni possibilità di opposizione da parte tua, sapevo con esattezza cosa provavi.
È curioso, ma sei costretto a fare quello che io vedo fare da te. Sei costretto a pensare quello che io so che tu pensi. Sei libero, e sei schiavo.

Ma forse non ti interessa più di tanto. Sai solo che attraverso me stai vivendo qualcosa che è sia mio che tuo, ma più tuo che mio. E vuoi sapere se in quella casa c’è qualcuno.
Ti avvicini, un po’ titubante, forse, mentre la grigia costruzione dalle buie finestre si spoglia sempre più delle fronde che la coprivano.
Brutta storia, questa casa è più silenziosa del luogo più silenzioso tra tutti i luoghi meno rumorosi del mondo. E capita proprio a te, a cui serviva tanto qualcuno che ti desse indicazioni, e invece ti ritrovi davanti a una casetta nuda e testardamente sola.
Forse è il tuo destino vagare per questa foresta, senza il minimo obiettivo, senza meta, senza avere una scelta: puoi andare dove vuoi, ma in nessun posto, perché in nessun posto sapresti arrivare, se non in quello che i tuoi inconsapevoli passi saprebbero suggerirti se gli lasciassi dominare le tue gambe.
Sei solo sfortunato; di tornare alla tranquillità non se ne parla neanche: hai avuto l’illusione di poter trovare aiuto e ti è stato negato qualsiasi appiglio; forse è un segno che dovresti tornare a sederti tra le foglie e stringere a te quell’ormai vecchia celestiale noncuranza nei confronti di tutto e di tutti.
No, non fa per te, in fin dei conti. Vuoi tornare a essere quello che eri. Hai paura che abbandonare tutto, anche solo per un giorno, ti possa essere fatale, ti possa cambiare per sempre. Forse in peggio. Forse solo in qualcosa che non è te, e ti fa paura.

E ora che si fa?

Oh, forse qualcosa sta per cambiare. Non l’avresti mai detto vero?
Ma come, non lo senti?
*cric*
*crac*
Ah, ora te ne sei accorto.
*cric*
*crac*
Sono dei passi. Qualcuno è venuto a cercarti? Possibile?
*cric*
*crac*
Immediatamente vedi un cacciatore. Non è reale, non lo vedi sul serio, ma dietro quei passi tu ci vedi un cacciatore, e ti prepari già. Deve per forza essere un cacciatore. Gli urlerai:
«Ehi, mi sono perso, dove accidenti è la strada?»
E forse lo dirai in tono arrabbiato, così da dare a vedere che hai perso la pazienza e che sei stufo di vagare non solo tra foglie e tronchi, ma anche tra strani pensieri, strane idee e strane sensazioni.
Se ti avessero chiesto di provare a indovinare avresti detto di tutto: un cacciatore, uno stambecco, un orso, una lepre, un semplice cercatore di tartufi, ma…una ragazza?
Tu pensavi di essere del tutto abbandonato a te stesso e la provvidenza ti manda una ragazza? In un momento così, in un luogo così?

Vestita più di salvezza che di vestiti, ti vede e a quel punto non puoi più tirarti indietro.
Lei è sorpresa, ovviamente. L’hai notato? Eppure ti guarda, con quegli occhi scolpiti nello smeraldo, come se sapesse tutto di te, e che cosa ti sta succedendo in questo preciso istante. Ma è solo un’illusione. O forse no, ma non importa.

«Ciao!»
Ti dice. E inclina la testa da un lato, in un gesto che trovi più amichevole del saluto stesso, e ti senti al centro della sua attenzione, e scopri in un guizzo di timidezza che ne sei contento. Che cosa le dirai?

«Ciao…senti, sai mica da che parte è la strada?»
Va bene, però potevi fare di meglio, non credi?

«Ti sei perso anche tu?»
Chiede, ed esclama, meravigliata. E meravigliosa è la sua domanda.
Per un attimo decisamente difficile da misurare, molto più piccolo di un decimo di secondo, pensi che lei sia a conoscenza di tutto ciò che ti è accaduto e si stia prendendo gioco di te. Ma poi realizzi che questa è un’inusuale e curiosa coincidenza.
In un battibaleno ti rendi conto che non ha un viso sgradevole, anzi, probabilmente la sua espressione di allegra spensieratezza la rende più bella di quanto sia in realtà; Avrai una compagna, con cui potrai parlare di quest’avventura, che cercherai la strada di casa non da solo, non in un animalesco e nel contempo umanissimo contatto con la foresta, ma la foresta stessa sarà ciò che accomuna te e un tuo simile, una tua simile, un raggio di luce.
Sei rincuorato, ti senti riscaldato, ora sei quasi contento di esserti perso. Però ti chiedi come possa lei essere tanto tranquilla. Tu cerchi di sembrarlo, ma non lo sei, e sei sicuro che fuori deve essere evidente almeno quanto una mosca su un foglio bianco.

«Sì…non ho proprio idea di dove andare…»
Ammetti con un certo imbarazzo.

«Io sì, a dire il vero ho un’idea di dove siamo, in questa casa abitava mio nonno. Però non so da che parte andare…ma vedrai che usciamo da qui. Andiamo di là?»
Allora non era ovvio che sapesse dov’è la strada. Ti è andata bene.
Ti indica la casa, vuole andare da quella parte. Su, dille qualcosa. Hai scelta?

«Va bene».
Le sorridi. Ottimo lavoro.

Vi mettete in marcia e mentre camminate la osservi a piccole dosi, di tanto in tanto, di passo in passo; pensi a come ti ha sorriso appena vi siete incontrati. È una ragazza diversa; non è come quelle che hai conosciuto prima. Pensi che qualcosa ti lega a lei anche se fondamentalmente non ti attrae; ma devi almeno conoscerla per scoprirlo. Questa tua sensazione è nata in un modo talmente spontaneo che deve essere vera per forza.

Potresti intavolare un discorso, mentre vi fate largo tra i cespugli e i rami degli arbusti.
Che aspetti?
Non sai cosa dire?

«Come ti chiami?»
Ti chiede. È venuta in tuo aiuto prima che tu potessi fare qualunque cosa, anche se non l’hai chiesto, come se avesse udito ogni singolo tuo pensiero.
Te ne eri dimenticato, ma hai un nome anche tu, in fondo.
Nel pronunciarlo ti chiedi se sia un bel nome, ma in particolare ti chiedi se piaccia a lei; anche se sai che il tuo nome è da sempre un involucro vuoto che non ti rappresenta, o ti rappresenta solo in parte.

«Io sono Nora».
Ti guarda con un sorriso che le pervade tutto il volto. È insolitamente amichevole, e pura, di una naturalezza innaturale. E state conversando, senza che tu te ne sia accorto.

«Come mai qui?»
E la tua domanda mi pare sensata. Cosa ci fa una ragazza in un bosco, perduta, senza curarsene oltretutto più di tanto?

«Stavo facendo una passeggiata» Ride. «e poi ho perso la strada».

«Sì, anch’io…» Ricambi. «potremmo provare a…»

«Ti piacciono le nuvole?»
La prima cosa che pensi è immediata, ovvia: Ma che razza di domanda è? Così, apparentemente senza un perché, come se non avesse ascoltato una sola parola, o peggio, come se non gliene importasse affatto di te.
Dopo qualche secondo di esitazione, in cui la tua espressione è passata rapidamente da ebete a esterrefatto a incuriosito, provi a rispondere.
Aspetta! Prima di dire qualunque cosa, fermati e guarda in alto: c’è qualche nuvola bianca, ora, di quelle tutte riccioli che sembrano fatte di bambagia e neve, che stanno sospese immobili, come in un quadro dipinto con sostanze troppo dense, con colori troppo vivaci. I contorni sono qua e là rosati, sfumati di un arancione che grida l’arrivo della sera.
Innumerevoli volte ti sei fermato a guardarle; però ora ne sei incantato, e quasi non senti la tua stessa voce.

«Anche a me»
Ti risponde. E ti prende la mano.
Sei troppo impegnato a non sembrare stupido per accorgerti d’esserlo. Hai appena perso ogni cognizione di te stesso per far posto a un istinto temporaneo sostitutivo della tua personalità. Non ti stai nemmeno godendo la sua stretta: ti tiene come se non volesse lasciarti più. Ma come?
Così all’improvviso? È possibile che sia una ragazza così estroversa e senza timori?
Così incredibilmente spensierata? Non sa nemmeno dov’è, ma più che altro sembra non dare conto al fatto che nemmeno tu sai dove sei e vorresti tornare a casa.
Poco fa ti avevo convinto a perderti. Credi di poter riuscire a perderti di nuovo?
Lei ti ha fornito un mezzo per farlo: improvviso, ingiustificato, perfetto.
Senti la sua mano: sa esattamente dove sta andando, dove ti sta portando.
Camminate sulle radici degli alberi, sui cuscini di foglie, sui sassi, sul muschio, sui formicai, sui tronchi, saltellate qua e là, ogni tanto vi guardate e ridete.
Lei non ti ha colpito subito, o almeno non il viso. Hai composto una leggiadra, bizzarra e meravigliosa idea di lei, ti accorgi della sua bellezza interiore e di come sia riflessa nell’aspetto esteriore. Non è bella; è di più.
No, non più bella che bella, non è “bellissima”: è solo più che bella. Il che può anche essere qualcosa d’altro. Il suo viso è normale, è come quello di qualsiasi altra ragazza, ma è più bella della più bella tra le ragazze.

Ti sei perso di nuovo. Questa volta non perché non trovi il sentiero, questa volta perché non riesci a capire quello che senti. Sei ben consapevole che i suoi lineamenti sono meno angelici di quanto tu abbia visto in precedenza sul volto di altre persone; ma sei ancora più consapevole che grazie a ciò che c’è dietro di essi, sono ancora meglio. Non angelici, di più. È la tua persona ideale. E non riesci a capire come possa essere tutto questo.



Capitolo Tre

Ci sei riuscito. Hai dimenticato tutto perché la presenza di lei, le parole di lei, la sua voce, il suo viso, le foglie, l’aria, insieme, ti hanno portato via. Ne avevi paura, prima, eri incollato, libero ma immobilizzato. Lei ti ha fatto diventare voi due. E scopri che esprime te stesso meglio di quanto tu sapresti fare.

La Fabbrica dei Sogni [Parte #1]

Era davvero un gran bello spettacolo quello che Athan Keller si stava perdendo. Dall’esterno tutto era perfettamente normale, o almeno lo sarebbe stato per qualsiasi osservatore, ma di osservatori non ce n’erano. Dall’interno della casa, invece, era tutto perfettamente visibile, ma lui stava beatamente dormendo. Oltretutto, ciò che stava accadendo non turbava minimamente il silenzio che accarezzava la tranquilla radura in questione.
Era un branco di candidi falò lampeggianti quello che correva sul buio prato montano. In tutte le direzioni bagliori bianchissimi zigzagavano, velocissimamente, senza avere una meta precisa. Ogni tanto qualcuna di quelle rapidissime scie si fermava tanto a lungo da poter mostrare le sembianze di un animale; e poi di nuovo si metteva a saettare sull’erba, come impazzita, come sparata dalla canna di un fucile.
Non era mai lo stesso animale: ogni bagliore, quando si fermava, assumeva una forma diversa, ma tutti sembravano fiammeggiare di un freddo fuoco bianco.
Era un evento del tutto eccezionale: qualunque occhio umano sarebbe stato incantato da un simile scatenarsi di dardi abbaglianti, nella più scura delle notti, nel più freddo dei posti, nel più quieto dei prati, sotto le stelle più lucenti. Potervi assistere era un privilegio e una fortuna non da poco, tanto che in passato qualcuno aveva anche pianto dalla commozione e dalla gioia. Ma in questo caso, l’unico che avrebbe potuto vedere, era indaffarato in tutt’altra attività. Nella fattispecie in un ritmico rumoroso ronfare. Eppure il sonno di Athan era in qualche modo collegato a quello straordinario trionfo di lampi.
Aveva sbloccato qualcosa, solo che ancora non lo sapeva. Nel giardino di sotto stava succedendo l’irripetibile, eppure lui per forza di cose non poteva essere presente; anzi il suo dovere era proprio quello di continuare a dormire.
Si trovava in un’enorme prateria, dove solo il vento sembrava esistere, a parte l’infinita distesa d’erba che faceva ondeggiare. E lui ovviamente.
Si sentiva felice. Fu ciò che provò all’inizio.
La scena era riscaldata da un bel sole vigoroso e l’aria era gradevolmente fresca.
Da molte notti ormai gli capitava di sognare quel luogo, a fasi alterne, ma quella notte accadde ciò che doveva accadere, finalmente.
Vide, nel giardino, il giardino che si trovava nella sua mente e in nessun altro luogo, la creatura infuocata. Era stupito, ma non spaventato, e del resto era solo un sogno. La creatura gli dava le spalle ed egli si mise in cammino. La voleva raggiungere. Non ne sarebbe stato interessato nello stesso modo se fosse stato reale; però si fece avanti, volto a scoprire cosa fosse quella bestia. E mentre camminava, a ogni passo l’animale era più vicino; e il cielo sempre più scuro. L’erba diventava terra; l’aria si faceva umida e pesante; un temporale stava per scatenarsi, questo era certo. Ma sia Athan che la bestia erano perfettamente quieti e spensierati. Come se il velo di ombra che stava calando su tutto il paesaggio, fosse ordinario, necessario. La candida creatura che ardeva dell’unico fuoco che non brucia sedeva, fissando un orizzonte sempre più nero. Athan non si curava di nulla, voleva solo toccare quella fiamma. Ormai mancavano pochi passi.
Le prime gocce d’acqua scesero; il primo fulmine tuonò. In un lampo, la bestia, bianchissima, si drizzò in piedi, e saettò nell’orizzonte, perdendosi, prima che Athan potesse toccarne il fuoco. Il sogno terminò, ma lui continuò a dormire.
Esplose un boato, e fu allora che si svegliò, di soprassalto. Non diede molto peso a ciò che aveva udito, come non si dà peso a nulla di strano che avvenga durante il sonno. Si convinse in pochi istanti di esserselo sognato. Accanto al letto su cui immobile giaceva, erano impilati una serie di libri di vari colori e diversissime dimensioni. Grossi quaderni a ganci dalla copertina di stoffa azzurra, piccoli diari rivestiti di pelle, sottili libretti variopinti, scarabocchiati con una calligrafia appena leggibile, acuminata e spezzata come se la mano da cui era uscita avesse voluto aggredire i fogli, pagine sparse, spiegazzate e strappate, o ingiallite; libri rovinati vecchi di chissà quanti anni, contenenti informazioni che a quasi nessuno interessavano. Informazioni raccolte perlopiù dal vecchio Lysander Hilger, il precedente inquilino dell’abitazione. L’intento di Athan era quello di scoprire come mai, all’improvviso, quando nessuno mai se lo sarebbe aspettato, il signor Hilger scomparve dalla circolazione. Cercò ovunque, nella casa, biglietti, diari e messaggi del vecchio, in cui dichiarasse di voler andarsene o volerla far finita. La polizia aveva già indagato, e archiviato il caso da molto tempo, ma Athan era sicuro di poter trovare qualcosa che alle Forze dell’Ordine fosse sfuggito. Aveva conosciuto Lysander da bambino, ci aveva passato diversi momenti, anche giocandoci e divertendosi, e non riusciva a capacitarsi del fatto che fosse sparito. La faccenda, lo sapeva, lo riguardava, in qualche modo. E voleva venirne a capo.
Ma non adesso, non questa notte, naturalmente. Aveva sonno e voleva dormire, dimentico del sogno appena vissuto.
Ebbe la spiacevole sensazione di essersi perso, quando attraversò il sentiero sconnesso tra le due enormi rocce piatte. Stava inseguendo qualcosa, pensò, ma all’improvviso si chiese come mai fosse giunto in quel posto di cui non aveva memoria, dove le nude pietre erano tutte testardamente identiche, dove non si sapeva minimamente orientare. Athan sentì le viscere appesantirsi; c’era afa, e il cielo era così minaccioso che pareva essere sull’orlo dell’ira. Si voltò, ma niente di ciò che vide gli ricordò quale fosse la strada. E Athan si trovò a vagare per la desolazione di quel luogo senza passato, tentando di fare dei propri passi senza meta la strada di casa.
Se prima aveva solo timidamente piovigginato, ora l’ira del cielo cominciò a rovesciarsi sulla terra, e il povero malcapitato fu tutto inzaccherato nel giro di pochi istanti. Il vento si fece gelido e iniziò a fargli male il viso, così cercò riparo in una grotta di fortuna. Si sedette e si raggomitolò su se stesso per far fronte al freddo; poggiò la testa sulle braccia incrociate e cominciò ad ascoltare il picchiettare dell’acqua, in attesa che smettesse.
Quando alzò la testa, la creatura fiammeggiante era lì, all’entrata della grotta, immobile, e Athan si chiese come fosse potuta giungere da lui senza fare il minimo rumore. Si mise una mano davanti agli occhi, poiché emetteva una tale luce da accecare, e la sua forma non era ben distinguibile. Si mosse, e si mise in cammino, sparendo aldilà della parete della grotta.
Athan non sapeva cosa fosse, e la pioggia era ancora molto forte, ma decise lo stesso di seguirla, come se dovesse completare un’opera intrapresa in tempi antichi.
Uscì fuori e si mise a correre nella pioggia, verso il bagliore. Realizzò con enorme stupore, accertandosi più volte che ciò che vedeva fosse vero, che dove passava la creatura non pioveva, e il terreno era perfettamente asciutto. Si tenne quindi vicino a essa quanto bastava per non infradiciarsi ulteriormente. La bestia saliva e scendeva dalle acuminate sporgenze rocciose con incredibile facilità, mentre il suo inseguitore si inerpicava goffamente, sdrucciolando più volte, per tenergli dietro. Arrivarono di fronte a una larga parete di pietra costellata di crepe e sporgenze. L’animale la scavalcò con qualche balzo, sebbene fosse alta più di cinque metri, e sparì alla vista.
Athan riuscì a scavalcare la roccia solo dopo molti tentativi e qualche rovinosa caduta. E quando fu in cima, vide un paesaggio del tutto diverso da quel buio ammasso di pietre grigie. Ebbe una forte vertigine: centinaia di metri sotto di lui si estendeva una vastissima pianura attraversata da un fiume, zeppa di siepi e fiori variopinti, alberi da frutto, piccoli laghetti e grosse rocce, e in lontananza era possibile scorgere la fiamma bianca. Come aveva fatto ad arrivare laggiù?
Athan si ritrasse dal precipizio, spaventato. Non sapeva che fare; evidentemente la creatura lo aspettava, ma non poteva certo balzare di sotto e aprire le ali. Di sentieri non ce n’erano, di discese nemmeno l’ombra. Rimase in piedi un momento, a pensare. Il cielo nel frattempo si era rasserenato. Il vento ora era molto più caldo, tanto che stare lì non portava più dubbi e paura nella mente di Athan, ma solo un temporaneo sollievo. La bestia ardente perseverava nello stare immobile al centro della pianura. Athan si sedette sulla rupe e iniziò a osservarla. Se da vicino era un forte bagliore di cui era quasi impossibile distinguere i tratti, da lontano non era altro che una piccola stella. Non ne vedeva gli occhi, ma era sicuro che anche l’animale lucente lo stesse osservando. E poi non lo vide più.
Più veloce di un lampo, si era spostato, fin sopra la rupe, alla destra di Athan. Ci mancò poco che cadesse di sotto dallo spavento. Non aveva ancora osato proferire parola, e non voleva farlo. Perciò aspettò di ricevere qualche ordine, o qualche segno. Il maestoso bagliore inaspettatamente fece un inchino, e Athan stava già per ricambiare quando si rese conto, vedendo che non si rialzava, che forse voleva solo portarlo in groppa. Decise di provare toccarlo, e gli si avvicinò. Fu come affondare le mani nella più morbida ovatta: era una bizzarra e bellissima sensazione, e Athan si issò sull’animale. Evidentemente aveva fatto quanto doveva fare perché in meno di un secondo era già in volo. Dapprima si sentì mancare il fiato ed ebbe un intenso capogiro; ma la lucente bambagia che stava cavalcando era piacevolissima, sicura, e la sorprendente velocità a cui Athan stava viaggiando in fondo era entusiasmante. Di sotto tutto fuggiva via confondendosi, a rapidità folle. Dove stesse andando non lo sapeva, ma si sentiva comodo e cullato, e non gli venne in mente di porsi problemi. Sapeva unicamente che doveva fidarsi di quella creatura, e solo di lei, qualunque cosa fosse accaduta, e seguirla ovunque fosse andata, anche in capo al mondo.

Scattò a sedere, come se qualcuno l’avesse infilzato nella schiena. Non era più seduto sulla candida bestia, ma sul suo letto. La stanza era esattamente come la sera prima: tutta in disordine. Ai lati del letto v’erano due grosse librerie colme di libri, e un guardaroba. Il cumulo di carte per terra sembrava implorare pietà. Niente era dove avrebbe dovuto essere, ma per Athan quello era del tutto normale. Certo, aveva un’inusuale concezione dell’ordine. Gli ci volle un po’, mentre fissava smarrito le cartacce illuminate da una fiacca alba, per realizzare ciò che aveva sognato, e in lui si accese come una lampadina.
Il ragazzo si catapultò giù dal letto e si mise a rovistare, sparpagliare e scavare come un minatore, in quella miniera di pagine. Tutt’intorno al letto si andava formando uno strato di carta che ben presto impedì ad Athan di potersi muovere adeguatamente. Ma alla fine trovò ciò che cercava: un vecchissimo diario dove mesi prima aveva casualmente trovato le parole “candida fiamma”, ed era sicuro che in esso era contenuto tutto ciò che voleva sapere. Si stese sul letto, il rosso diario rovinato, bordato di cuoio, tra le mani. Lo aprì casualmente e ci mise un po’ prima di trovare la calligrafia confusa e appuntita del vecchio Hilger.

15 Settembre
Continuo a rincorrere qualcosa che mi sfugge. Una bestia che brucia. Non riesco a raggiungerla. Stanotte l’ho sognato per la terza volta…credo.


1 Ottobre
Sono logorato da queste visioni. Sono stanco. Vorrei che non mi tormentassero più.


8 Ottobre
Sono stato da uno psicologo: per farla breve, mi ha detto che non ne sa niente. Sono preoccupato. Prendo appunti semmai qualcuno dovesse volere una base per diagnosticare una malattia.


17 Ottobre
Questa notte inseguire la bestia mi è stato particolarmente difficile. Ho dovuto attraversare un’intera giungla nella più fitta grandine, e alla fine sono giunto a un’enorme cascata e il sogno è terminato.


2 Novembre
Il sogno si è interrotto per qualche giorno. Ieri notte ha ripreso. Ero in un deserto, e la creatura correva dappertutto: non riuscivo a starle dietro. Mi chiedo per quanto ancora continuerà a sballottarmi di qua e di là. Francamente penso si stia prendendo gioco di me. Se mai esiste e ha volontà propria. Non escludo che possa essere la mia stessa mente a beffarsi di me.


6 Novembre
Questa volta ero su un baratro di cui non si vedeva la fine: mi sono arrampicato per qualche metro su una parete rocciosa che dava sul vuoto, seguendo quel maledetto bagliore che saltava su e ancora su come un ragno. Dove vuole arrivare?


21 Novembre
Le fasi in cui questo sogno ricorrente non si manifesta sono una manna. Tuttavia, durante questi periodi non sogno nulla. Assolutamente nulla. Quella candida fiamma si è impossessata del mio sonno.


4 Dicembre
Mi piacerebbe pensare che tutto sia finito. Ma continuo a non sognare più niente.


11 Dicembre
L’ho inseguita di nuovo. Questa volta in un giardino senza orizzonti con una grande magnolia nel mezzo. Ora colgo i dettagli con maggior facilità: nel sogno c’erano papaveri un po’ ovunque; il cielo era plumbeo; l’aria densa. L’ho seguita, finché sono arrivato a dover guadare un fiume e poi mi sono svegliato.


19 Dicembre
Torno a scrivere. Benché io abbia ormai provato di tutto, questo qualcosa non smette di accadere. Ma non mi arreca più rabbia, né tristezza. Ne sono ossessionato. Stanotte ho sognato di essere in un campo di granoturco; la luccicante creatura si staglia sempre sull’orizzonte come una statua abbagliante e vuole che la segua, lo intuisco.



24 Dicembre
Ogni sogno si fa sempre più particolareggiato. Ogni notte ho sempre maggior controllo su quanto accade. Questa notte ho accarezzato la creatura. È stato come toccare del cotone. Poi è sparita.


31 Dicembre
È tutto sempre più reale, come se stesse per accadere quello che deve accadere. Come se la mia rincorsa stesse finendo. Mi sto avvicinando a qualcosa, lo sento.


9 Gennaio
Allego un piccolo documento che tratta di questo disturbo. Con mia grande sorpresa ho scoperto che non ne ho avuto esperienza soltanto io. Ciò mi rincuora. Ho trovato questo documento in un vecchio libro che non ricordavo di avere.

Athan trovò un foglietto spiegazzato, ingiallito e sottilissimo, tanto che ebbe paura che gli si sgretolasse tra le mani nello spiegarlo.

Intorno al 30 d.c. quella che fu considerata una delle più bizzarre malattie della storia dell’umanità emerse tra i popoli europei, contagiando in particolare i Romani. La piaga, peraltro piuttosto contenuta, si diffuse sotto il regno dell’imperatore Tiberio. Fu chiamata in molti modi nel corso dei secoli, ma oggi pervengono a noi soltanto due nomi, forse i più comuni: il latino Fulgor Mortis, che rimase in vigore fino all’età medievale; e quello più recente, Astro Mortale. Chi ne veniva colpito, era sistematicamente colto, di notte, da un sogno ricorrente in cui era costretto a seguire una creatura candida e fiammeggiante.


14 Gennaio
Questa notte il mio inseguimento si è concluso in un giardino sotto una volta stellata. La creatura si è fermata e mi ha fissato a lungo.


Gli appunti del vecchio Hilger terminavano con quest’ultima annotazione. Athan sfogliò rapidamente le pagine del diario per controllare se ci fosse scritto altro, ma vide solo vuoti fogli giallognoli. Non si arrese: ora voleva a tutti i costi trovare il libro da cui era stato strappato quel sottilissimo foglio, certo che avrebbe scoperto dell’altro.

Il Salice

Una nebbia insistente e gelida ci sagomava alla perfezione. Ogni tanto qualcuno si muoveva, dondolandosi avanti e indietro per il pianto, e le volute si alzavano e si espandevano, e facevano giravolte nell’aria. Eravamo tutti di fronte al cancello, in una lunga collettiva veglia. Il cimitero era muto, ma emetteva un frastuono che andava ben oltre i lamenti di chi piangeva, al di fuori, appoggiato al cancello con la testa affondata in un braccio o seduto abbracciato a un caro; ma io no.
Non piangevo. Il pianto delle altre persone era naturale, motivato. Tutti avevano perso qualcuno, quel giorno. E anche io, stando a quanto ho a ricordare. Ma me ne stavo muto, zitto, in silenzio, testardamente solo. Ogni tanto qualcuno mi lanciava uno sguardo di sorpresa o di dissenso, o di paura perfino; come poteva un giovane starsene, in quel giorno, in piedi, perfettamente impassibile, solitario e anonimo, fuori dal Cancello? Alcuni si ritraevano da me; altri ritraevano i propri figli, come da una bestia che aspetta il momento propizio per azzannare. Li stavo scuotendo immobile.
Li stavo terrorizzando impassibile. Quando mi decisi a camminare, alcuni si ritrassero ancor di più, com’era prevedibile. Ma non feci loro del male, come s’aspettavano, cosa che per me non avrebbe avuto alcun senso né alcun motivo. Entrai nel cimitero, cercai la lapide con scritto “Grayd Polan”, mi accovacciai, e attesi. Sentivo gli occhi su di me e sentivo i loro pensieri e le loro domande; e sentivo la sorpresa e l’odio, e la paura e vedevo i loro volti senza guardarli. Attesi, finché finalmente la voragine si aprì sotto di me. Ognuna di quelle anime disperate e ormai contorte svanì; io caddi, nel baratro dell’ignobile e scura valle, dove ora quelle persone sgranavano gli occhi senza più vita, dalle loro bare di ghiaccio. Scesi dalla roccia e m’incamminai per il sentiero costeggiato dalle due alte mura di alberi e pietre, in cammino verso la montagna del Salice. Il cielo era grigiastro con fluorescenze ocra e arancio; l’aria era densa, e il vento elettrico. Calpestavo antiche mattonelle di regni cancellati e civiltà distrutte, in cammino verso la Montagna. Arrivai al portone, zuppo e inzaccherato di paure che fuoriuscivano di nascosto da una prigione minuscola insediata chissà dove nel segreto di me stesso. Era chiuso; e non so e mai saprò dire come, guardai indietro e vidi il portone spalancato, e davanti a me la via che serpeggiava per il dorso del monte. La percorsi sotto l’occhio di ombre indiscrete che ogni tanto schiamazzavano con la loro voce tanto simile al rintocco di una campana di cattivo metallo. Arrivai in cima, inerpicandomi per improbabili anfratti e massi aggrappati alla parete rocciosa. E vidi infine il Salice: così triste e così semplice, così tetro, così scuro, con quel suo ondeggiare al vento, bisbigliando e mormorando parole che forse solo io ho potuto e posso comprendere; la cima della montagna era un cerchio contornato da precipizi. Presi posto sul bordo, mi sedetti, osservai l’orizzonte: era così chiaro e così luminoso, ora, così vasto e luccicante, imbevuto di quella luce che non vedevo da quando l’uccello bianco dalla coda e il becco neri la portò su di me.

La fine di Oklotsky

«Sì, Oklotsky, sono ancora vivo. Malgrado tu mi abbia ripetutamente scagliato contro le tue tenebre, che tante anime in passato avevano mietuto; sebbene la mia forza sia ormai giunta al suo esaurimento e il mio corpo sia così logorato che solo l’anima mi tiene ancora insieme, sono ancora vivo, qui, nella terra su cui Narios e Osnas si incontrarono e scontrarono per la prima volta.
Non è la sopportazione che mi tiene in vita. È piuttosto un’indiscutibile differenza tra me e coloro per i quali le tue tenebre erano state disegnate. L’eco delle metalliche armi di Osnas è ancora conservato nei sassi e nell’erba; la scossa del calcio di Narios echeggia ancora sotto terra.
Ho attraversato il teatro dell’epica guerra quando ancora i due Soli, Tetron e Dadron, sorgevano da Nord; le mille luci che filtravano dalle montagne di corallo illuminavano il Gran Tempio di Tentobernalius dal dì alla notte. Ma quel tempo è passato, e a te toccherà la stessa sorte».

«Riconosco, Navondion, che la forza di cui i Nokt mi hanno fatto portatore non è finora stata sufficiente a debellarti dal mio Regno. Osnas fu mandato da Qloraqwon, e perse, ciò è vero; ma prima ancora, quando nemmeno le montagne di corallo, e nemmeno i soli Tetron e Dadron erano stati generati, la forza dei Nokt era viva e nel pieno del suo tenebroso splendore. L’immenso calore di Tetron fu soffiato dalle labbra del Sommo Ckuwqe, e ancor’oggi arde e riluce. E per quanto pensi di poter fronteggiare un simile potere? Nessuno vi si è mai avvicinato a tal modo; io, dal canto mio, ne sono immune. E ancora hai il coraggio di affermare che la mia morte sia vicina. Io, che ancora posseggo la totalità delle mie antiche forze originarie?»

«Il tuo ignorare è una terribile mancanza, Oklotsky. Il Sommo Ckuwqe non operò, invero, per conto del Male; ti dirò che nemmeno Qloraqwon mandò Osnas con mali intenti. Poiché, credimi, l’ho visto con i miei occhi, Narios e Osnas stessi sono stati creatori, tramite il cozzare dei loro corpi e dei loro spiriti, del Bene e del Male. Tu hai un privilegio e un limite, Oklotsky: tu, che dalle tenebre sei nato e dall’oscurità sei nutrito, puoi ancora scegliere di agire per conto di qualcosa. Puoi ancora decidere di operare per il Bene. Io sono stato generato prima che tutto si dividesse e spartisse, prima ancora che ci fosse squilibrio e che il Buio ribelle rifuggisse la Luce matrice; io non conosco i membri e i motivi di tale diatriba senza fine.
Guarda, Oklotsky, il sole Tetron sta sorgendo. E io sono ancora qui. Ciò che non hai capito e non capirai mai, è che io sono già morto, e non lo sarò mai».

Non lo so

Correvo nel buio, calpestando qualcosa che solo l’intuizione poteva suggerirmi essere un pavimento; in realtà era pura ombra, e l’oscurità che mi avvolgeva era priva di aria: non potevo respirare. Ma non ne avevo bisogno. Ero in equilibrio con il mondo e la materia. Il mio corpo era solo una macchina semovente di cui percepivo i lontani passi e le remote contrazioni. Sentii due possenti mani afferrarmi ai fianchi e per le braccia, tirandomi indietro, impendendomi di avanzare oltre. Non me ne stupii; sapevo che qualcosa voleva fermarmi. Non dovevo più avanzare. E quelle due braccia di quercia non me lo permisero. Venni sollevato in aria e spinto contro il soffitto, e le braccia mi lasciarono andare. Non caddi: il soffitto era il suolo. E si muoveva. Vi strisciai sopra, scoprendolo pieno zeppo di crepe e incrinature. Potei udire un verso di qualche animale che aveva gran poco di naturale. Non so dire perché lo classificai tra le voci animali, dato che di vivente non aveva nulla. Il suolo cominciò a scrostarsi e ne caddero frammenti seghettati e incandescenti. Salivano: la gravità era quindi rimasta immutata; ero mutato io. Gli spazi che si andavano formando sotto di me lasciavano intravedere una pelle squamosa di un rosso infuocato e rovente che potevo toccare senza provare dolore; sentivo invece voci sommesse e urlanti, grida di dolore e di paura, di strazio per la malaugurata sorte, e rimbombavano nei timpani come in grossi tubi di ferro. Vidi un occhio, bianco, enorme, profondo. Ci fissammo a lungo, mentre la creatura perdeva il suo strato superficiale. E ancora vibrò nell’aria quel lamentoso suono che potei udire con tutto me stesso, con ogni mia estremità. Capii ciò che voleva. Ero sul suo capo; ora non più. Vedevo il suo ventre, in piedi sul terreno d’ombra, e posai la mano su di lui, mentre mi fissava, col suo collo lunghissimo, attorcigliato e ingarbugliato attorno a me, mi fissava, con gli occhi della notte; la mia mano emise un fulmine e la creatura si accasciò a terra. Sembrò morta; se lo era, rinacque sotto le spoglie di un uccello bianco dal becco e dalla coda neri, se ne volò via, portando con sé l’oscurità, e rimasi sdraiato, su un nuovo prato di luce bianca senza timori e senza angosce.