lunedì 15 giugno 2009

Bene

Adesso che ho messo qui tutta la legna potete appiccare un bel fuoco e far venir su la cocente fiammata che scalderà la pentola dove preparerò la mia letteratura.

Tornerò a scrivere quando ne sarò capace.

Grayd Poland [Parte #2]

«La donna aveva il viso sfigurato. È stato terribile, Francis era più pallido del cadavere. Non ho avuto il coraggio di chiedergli chi fosse. Chi fosse per lui, almeno» dissi.
Odren, caro amico di ormai vecchia data e bianca chioma, con cui ero solito confidarmi e bere qualcosa al Dan Powls Bar della strada centrale di Glindsburg, ordinò due whiskey irlandesi, di cui non ricordo il nome, ma penso che la gradazione alcolica non me la toglierò facilmente dalla testa. E dalla bocca.
«Osceno. Disgustoso. Sembrava l’avesse morsa qualcuno, più volte. Lavorare insieme alla polizia mi fa sempre sprofondare in pensieri di scure origini».
«Dipende tutto dal modo in cui vedi le cose, Grayd».
«Questa cosa qui me l’hanno già detta, è vecchia. Ho sentito queste stesse parole da migliaia di bocche diverse con migliaia di accenti e cadenze diverse. Lo so».
«Io non sto parlando di vedere un fatto negativo come qualcosa di positivo, bada bene, avveditene, non pensare che io faccia certi errori, non finché la mia vecchiaia sarà così giovane da essere ancora saggia. Perché il futuro è oscuro e non possiamo comprendere tutte le scelte del destino, e da una tragedia può nascere una catastrofe, e da una catastrofe possono nascere miliardi di piccoli mondi in cui tutto va bene, anzi va meglio di prima, e... eccetera, eccetera. No, no, non voglio parlare di quello».
«Vai a fare il predicatore tra quelli che vedono la vita come uno schifo ignobile e vai con fare altrettanto critico verso chi annuncia il bene e l’eterna, inesistente, felicità».
«Ma vedi, la vita è uno schifo ignobile, ed è pure il brodo dove chi arde di anelata felicità si crogiola; La felicità non esiste. La felicità esiste. La felicità può essere tutte queste cose, perché qualcuno decide quale di queste può essere. Tu, io. Loro. Tu sai cosa vuol dire esistere? Io no. Ma non serve. Credi che serva?»
«Significa che…»
«Cosa? Che c’è?»
«Sì, cioè, che…»
«Che lo puoi vedere».
«S…beh, no, no…»
«Certo che no. Il mondo è tutto dentro di noi. Credi che il male venga da fuori? Credi che esista, soprattutto? È la parte di noi che non controlliamo, che ci gioca scherzetti da non poco. Ogni volta che il mondo esterno è atroce e confuso, è il mondo interno, che è atroce e confuso. Il mondo esterno non ci riguarda. Nemmeno possiamo andarci, lì. Ti piacerebbe? No. Non ti servirebbe, non potresti. Smetteresti di essere te. Smetteresti di essere qualcosa, probabilmente. L’universo non esiste, e non sa che noi esistiamo, perché noi, noi, un giorno, abbiamo detto, noi esistiamo».
«Lo abbiamo solo detto, ma è vero, come puoi vedere».
«Il problema è piuttosto l’idea che si è sviluppata in noi di questo verbo. È diventato qualcosa di universale, e invece è solo umano. Mi accorgo che sia difficile da capire, ma non importa, credo di aver gettato in te un seme di qualcosa».
«Ma se ciò che vedi non esiste, dove lo trovi tu, il senso?»
«Non lo voglio trovare. Questo è il senso. Solo che non volendo trovarlo si apre la porta del mondo esterno. All’inizio sembra bello, ma poi diventa insopportabile. Nel mondo interno il senso esiste, solo che nessuno lo conosce né lo può conoscere. E un giorno tutto questo non ci sarà più, unico e sufficiente motivo per quale tutto è lecito che esista, e per il quale nessun senso ha il lusso di esistere. Oh, ancora quel verbo».
Arrivarono i due whiskey, planando su di un vassoio portato da una cameriera, direi, esterrefatta ma in maniera ben camuffata. Con Odren era facile assistere a situazioni simili.
«Tra parentesi…mica volevo parlare di felicità, io».

martedì 2 giugno 2009

Grayd Polan [Parte #1]

«Signor Polan»
Mi salutò il commissario. Aveva i capelli spettinati: un mucchietto senza forma bianco e nero, segno che vi aveva più volte passato la mano, forse per pensare meglio, o per il disgusto, o per la paura. E dimenava con la mano sinistra quel suo cappello bruno, a ritmo, senza sosta, tanto che mi diede un po’ fastidio. Sorrideva, ma stringendo le labbra in un ghigno tipico di chi vorrebbe adottare altre espressioni, ma certe circostanze impongono determinati comportamenti e del resto, non mi vedeva da tanto tempo, anzi, in qualunque altro frangente mi sarei stupito della mancata stretta di mano.
«Mi fa…piacere rivederla»
A esser sincero, non saprei dire perché, ma stava misurando le parole in maniera inequivocabile e sospetta. Certo, l’aria gelidamente densa di quel posto era probabilmente responsabile delle mie sensazioni. Avete presente quelle pinete in cui passa ogni tanto quel birbante sapore di muschio e odore di resina? Dal suolo accarezzato da tappeti di sassi, erba e ceppi, e funghi e rametti, dove i sentieri danzano e si confondono, e le foglie secche parlano solo del muto autunno. Ora, pensate alla notte, e a quanto potrebbe l’ombra di una pineta mutare in un’orrida nebbia scura che si attorciglia attorno ai tronchi e si deposita come fumo pigro sulle radici che serpeggiano nel terriccio e sotto le foglie. Avrete il posto dove fu assassinata Edna Auderville, e dove ne fu rinvenuto il corpo, nel preciso punto in cui ora il commissario Francis D’Owes Dowell mi fissava da languidi occhietti del colore dell’oceano in burrasca. E, sì, a questo punto volli vedere con i miei occhi.
Non fu, con mia sorpresa, uno scempio di gravi proporzioni: il delitto si limitava a un corpo biancastro, freddo e seminudo, senza vita e macchiato di un innocente, precoce rosso. Dowie, così lo chiamavo, dai bei tempi della gioventù, non aveva ragione d’essere così pallido e, a quanto mi parve, forse, proprio terrorizzato. Non ne aveva ragione perché ricordo assai bene quante ne aveva viste di donne, e di uomini, e anche bambini per tragica sorte, supini, col ventre immobile, e la carne incolore.
«Niente notizie sull’assassino, vero?»
Chiesi. Oh, beh, come minimo meritavo una risposta, una risposta che l’immobile espressione di Dowie, avvolto ermeticamente nell’impermeabile come per proteggersi da qualcuno, non mi diede. Si limitava a fissare me e il corpo alternativamente, cosa che mi turbò abbastanza. Poi volsi lo sguardo di nuovo al corpo, accovacciandomi, ed ebbi un forte senso di repulsione, e il violento istinto di saltare in piedi e correre via.
Una parte del collo, quella che rimaneva nascosta, era stata tranciata. Staccata. Morsa, constatai. E l’espressione del commissario fu chiara. Forse feci un piccolo balzo all’indietro, perché sembrò accorgersi della mia scoperta.
«Dicono sia stata una bestia, una bestia bella grossa, con…con grossi denti»
Mi disse. Ma si sentiva, che non ci credeva, vero o falso che fosse, la sua voce era acuta e leggera, e un orecchio attento poteva sentirla vibrare dalla voglia che aveva di darsela a gambe. Ripresomi, analizzai meglio la scena.
Di sangue ce n’era molto, com’è ovvio, un collo reciso non può che produrre pozze di sangue. In quel caso, però, la nebbia, il buio e il terriccio nero smorzarono il mio disgusto. La vittima era a pancia in giù tra le foglie, con ancora quella che sembrava una gonna stracciata. Non si trattava di una bestia feroce, pensai. Una bestia feroce non strappa interamente un vestito, semmai lo riduce in brandelli. E di brandelli non ce n’erano, da nessuna parte. Ciò che mi colpì in maniera particolare fu la somiglianza tra la ferita della donna e la forma tipica dei morsi, una serie di mezzelune disposte ad arco.
«Tieni, guarda se c’è qualcosa…»
Mi porse una torcia elettrica, senza aggiungere altro. L’incompletezza delle sue parole cominciava a preoccuparmi. Evidentemente, comunque, voleva che ispezionassi per bene la scena del delitto. Badate bene: non sono un detective, né tantomeno un laureato in criminologia, o chimica. Ero solo un amico di Dowie, che in quel momento si trovava lì per dargli una mano un’altra volta, come aveva sempre fatto. Benché ora Francis sembrasse l’incarnazione del panico. E non sapevo perché.
«Che c’è, Dowie, mi sembri un morto»
Gli domandai mentre ispezionavo il corpo e il terreno, senza dare un vero e proprio tono interrogativo. Anche se in effetti avrei dovuto evitare l’ultima parola. Tolsi con delusione il fascio di luce da una foglia che mi era parsa in tutto e per tutto una possibile arma del delitto, e, non sentendo alcuna risposta mi voltai.
Sembrò sorpreso che mi stessi rivolgendo a lui.
«Io? No...oh diamine, lo senti anche tu questo freddo no? Non mi piace stare qui, non mi piace per niente, sembra di stare in una cella frigorifera…» se non sbaglio rise «guardati intorno, voglio dire…come fai a non star male?»
No, non era solo il freddo, o il buio, o il cadavere. Continuava a fissare il corpo e a guardare me, e guardarsi intorno. Tremava, violentemente ora, e di nuovo guardò la donna, e me, e capii in poco più di un istante che moriva dalla voglia di sapere chi era quella donna. Era a faccia in giù, non l’aveva ancora girata e guardata, aveva preferito lasciare a me il compito. Evidentemente non ne aveva il coraggio. Semplicemente lui quella donna la conosceva.