domenica 12 aprile 2009

Il Salice

Una nebbia insistente e gelida ci sagomava alla perfezione. Ogni tanto qualcuno si muoveva, dondolandosi avanti e indietro per il pianto, e le volute si alzavano e si espandevano, e facevano giravolte nell’aria. Eravamo tutti di fronte al cancello, in una lunga collettiva veglia. Il cimitero era muto, ma emetteva un frastuono che andava ben oltre i lamenti di chi piangeva, al di fuori, appoggiato al cancello con la testa affondata in un braccio o seduto abbracciato a un caro; ma io no.
Non piangevo. Il pianto delle altre persone era naturale, motivato. Tutti avevano perso qualcuno, quel giorno. E anche io, stando a quanto ho a ricordare. Ma me ne stavo muto, zitto, in silenzio, testardamente solo. Ogni tanto qualcuno mi lanciava uno sguardo di sorpresa o di dissenso, o di paura perfino; come poteva un giovane starsene, in quel giorno, in piedi, perfettamente impassibile, solitario e anonimo, fuori dal Cancello? Alcuni si ritraevano da me; altri ritraevano i propri figli, come da una bestia che aspetta il momento propizio per azzannare. Li stavo scuotendo immobile.
Li stavo terrorizzando impassibile. Quando mi decisi a camminare, alcuni si ritrassero ancor di più, com’era prevedibile. Ma non feci loro del male, come s’aspettavano, cosa che per me non avrebbe avuto alcun senso né alcun motivo. Entrai nel cimitero, cercai la lapide con scritto “Grayd Polan”, mi accovacciai, e attesi. Sentivo gli occhi su di me e sentivo i loro pensieri e le loro domande; e sentivo la sorpresa e l’odio, e la paura e vedevo i loro volti senza guardarli. Attesi, finché finalmente la voragine si aprì sotto di me. Ognuna di quelle anime disperate e ormai contorte svanì; io caddi, nel baratro dell’ignobile e scura valle, dove ora quelle persone sgranavano gli occhi senza più vita, dalle loro bare di ghiaccio. Scesi dalla roccia e m’incamminai per il sentiero costeggiato dalle due alte mura di alberi e pietre, in cammino verso la montagna del Salice. Il cielo era grigiastro con fluorescenze ocra e arancio; l’aria era densa, e il vento elettrico. Calpestavo antiche mattonelle di regni cancellati e civiltà distrutte, in cammino verso la Montagna. Arrivai al portone, zuppo e inzaccherato di paure che fuoriuscivano di nascosto da una prigione minuscola insediata chissà dove nel segreto di me stesso. Era chiuso; e non so e mai saprò dire come, guardai indietro e vidi il portone spalancato, e davanti a me la via che serpeggiava per il dorso del monte. La percorsi sotto l’occhio di ombre indiscrete che ogni tanto schiamazzavano con la loro voce tanto simile al rintocco di una campana di cattivo metallo. Arrivai in cima, inerpicandomi per improbabili anfratti e massi aggrappati alla parete rocciosa. E vidi infine il Salice: così triste e così semplice, così tetro, così scuro, con quel suo ondeggiare al vento, bisbigliando e mormorando parole che forse solo io ho potuto e posso comprendere; la cima della montagna era un cerchio contornato da precipizi. Presi posto sul bordo, mi sedetti, osservai l’orizzonte: era così chiaro e così luminoso, ora, così vasto e luccicante, imbevuto di quella luce che non vedevo da quando l’uccello bianco dalla coda e il becco neri la portò su di me.

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