martedì 28 aprile 2009

Stanza

Ho trovato la saggezza e ho trovato la purezza; la bontà e la cattiveria, la forza e la mitezza. Ho imparato l’umiltà e insegnato la grandezza. Ho appreso l’intuizione e la chiarezza. La perseveranza e la critica. La calma e la quiete. Ma conservo il timore. Sono capace di guardare me stesso, e ogni volta che mi vedo qualcosa di me cambia; ogni volta che esco dalla mia piccola stanza di carne in burrasca vedo con gli occhi del divino il corpo ridicolo di assurdo intelletto, immerso come una spugna nel mio continuo reale, e osservo il reale che vi si infiltra, finché si mescola e si fonde del tutto.
E ogni volta che esco sulla terrazza a cui l’uomo non può affacciarsi che per brevi tratti, e vedere uno scorcio dell’orizzonte ultimo, ritorno a me rinvigorito, rinsavito, arricchito. Dalla finestra che dà su me stesso posso morire, e nascere di nuovo, sempre diverso, sempre più quieto, sempre più in alto.
Ma ora sono davanti alla porta, e sto male. La sento vibrare; mi angoscia. Emana il fetore del beffardo e scuro dubbio. Vuole che io la apra. O lo voglio forse io?
Vuole che la attraversi, ma oltre di essa c’è solo ciò che la parola non può dire. O lo penso forse solo io?
Che cos’è quest’”altrove”, quest’aldilà, quest’oltre;
Che cosa mi farà? Il pomello è un'insaziabile bestia che si nutre di angoscia.
Sento le voci di chi non dovrebbe più aver fiato. Ma la porta mente. Odo il chiacchiericcio sommesso dell’oscurità stessa; ma la porta mente. Mormorano i diavoli dell’antico ignoto, e la porta mente. Sto mentendo.

La maniglia fu un freddo e divampante nuovo, nel mio palmo; tirarla volle dire lanciare, gettare via; aprire significò chiudere. Chiusi l’odio e il buio nella stanza senza più me, e uscii. Ciò che vidi non mi sorprese. Ma mi attraversò come un ruscello ardente di dimenticata, rovente vita. Ora avevo tutto, e non desideravo più niente; poiché non potevo più avere niente. E non ne ero spaventato o svuotato; ma colmato e rinfrescato.

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