giovedì 30 aprile 2009

Pioveva

Pioveva come non avevo mai visto piovere in tutta la mia vita. Non era solo l’acqua che veniva giù, a essere interminabile e tetra, inesorabile, picchiettandomi sull’impermeabile, era piuttosto la soffocante e densissima aria che strangolava qualsiasi forma e colore. Tutto era orribilmente grigio e nero, triste e spoglio, contorto e morto. Le nuvole ruggivano come imbestialite, mentre le gocce si facevano più grosse, più pesanti, e più cattive, quasi avessero volontà propria e trovassero soddisfazione nel punzecchiarmi il viso. Il fiume mi serpeggiava accanto, nascondendo la sua fine in un orizzonte oscurato da quell’atmosfera insopportabile, era un continuo saltellare di goccioline, innumerabili, irrequiete e arrabbiate. L’acqua sembrava lanciare le sue maledizioni contro il cielo.
Mi misi a correre molto velocemente, calpestando radici ora esposte ora nascoste, sassi infangati e coperti di muschio, e animali morti. La montagna da cui scaturiva il fiume era esattamente davanti a me, altissima, con la vetta persa al di sopra del manto nero. Ormai stava per mettersi a grandinare, e cominciavo a calpestare pezzetti di ghiaccio coi miei stivali zuppi di fango. Là c’era un riparo; dovevo giungere ai piedi del monte. Percorsi il fiume costeggiandolo sulla sua riva destra, lo sguardo basso e avvolto nel cappuccio, tenendo testa a quella terribile frenesia di acqua e ghiaccio che mi tormentava. E correvo, mentre imperversava la tempesta più ardita. Il vento mi fischiava parole di minaccia; mi gelava il volto, e fischiava, e ululava. E ora era difficile camminare.
Ma la vista del puntino luminoso che tante volte ho chiamato casa, quel riparo sicuro e al di fuori di quel tremendo freddo, attraeva a sé i miei passi, li guidava come un burattinaio governa il burattino.
Ora la terra si faceva aspra e contorta, costellata di pozzanghere anche profonde, così che mi ritrovai ben presto a dovermi ripetutamente scuotere per pulirmi dalla fanghiglia. E constatai con dolore che la grandine si faceva davvero martellante, e grossa. Mi sembrava che mi stessero lapidando. Fortunatamente il vento cambiò direzione, assistendomi nella mia corsa, cosicché ora la pioggia mi arrivava dritta nella schiena. Ma procedevo più speditamente, come se quel qualcuno la cui ira aveva prodotto tanta cattiveria infernale, volesse vedere fino a che punto mi sarei spinto, dove sarei arrivato, come mi sarei salvato. Raccolsi la sfida, naturalmente, correndo e scavalcando la moltitudine di ostacoli. Il puntino luminoso ora era la debole ma ben distinguibile luce proveniente dalla finestra centrale, irradiata dal falò nel caminetto. Fortuna che era ancora acceso, così mi sarei scaldato più in fretta. Sentii la salvezza vicinissima, e mi vi scagliai. Per poco non inciampai, ma arrivai finalmente sano e salvo al mio uscio. Feci per aprire la porta, ora rassicurato e tranquillo, forte della mia vittoria sugli avversi rovesci. Troppo rilassato, forse, perché ritrassi la mano ed ebbi la capacità e il coraggio di mettermi a riflettere; anche se di motivi apparentemente non ce n’erano. Guardai in alto. Un frammento di quel telo nero saltò via, quasi qualcuno l’avesse tagliato, le nuvole si squarciarono in un breve e piccolo scorcio che fece perdere il mio sguardo nel caldo azzurro. E poi le nuvole nere lo divorarono di nuovo, e scomparve.
Ma certo, mi dissi. Entrare in casa vorrebbe dire solo coprire la paura con una sicurezza artificiale ed effimera. Vorrebbe dire combattere. Essere avversari del pericolo. Perché invece non trovare un accordo? Perché non provare a trovare quel buono che c’è anche in un pericolo? Anche in un tale trionfo di assurda violenza naturale?
Andai dietro la casa, dove cominciava il sentiero che conduceva su per i pendii della montagna. Provai a scrutare la cima, ma vidi solo un enorme cono mozzato a un certo punto da una lama di bambagia sporca. Ora ero io a sfidare quella cruenta forza; e a sua volta raccolse la sfida. E lo sentii. La grandine era come uno sciame di lame ghiacciate. Mi incamminai su per il pendio, e più salivo, più ero costretto a guardare in basso o a ripararmi sotto qualche roccia, perché la cosa cominciava a farsi davvero insopportabile. Ma ero animato da una volontà a me sconosciuta, eppure così mia: una volontà di vittoria che ora mi attanagliava e guidava le mie gambe più della precedente speranza di sicurezza. Mi arrampicai; scivolai innumerevoli volte, e altrettante volte saltavo, mi aggrappavo, strisciavo, su per sentieri e impervie stradine rocciose. I rovesci erano ora come tanti uomini che mi volevano morto, picchiandomi in ogni direzione, anche in orizzontale, nelle costole e nelle gambe.
Mi addentrai nella nuvola nera. Al suo interno ogni frastuono di scroscio sembrava essersi placato; suonava più come il ricordo di un sogno appena fatto, imbavagliato e soffocato. Anche la strada sembrava più semplice. Spinto da nuovo coraggio mi misi a correre. Si cominciava a vedere un po’ di blu, in tutto quel grigio da cui ero avvolto. E ora dell’azzurro; e una sfera lucente in lontananza, ma così calda, ora. Sbucai fuori impavido e fiero da quell’ammasso di vapore diabolico, con gli occhi chiusi, e li spalancai. E vidi la vetta della montagna, qualche decina di metri sopra di me. E la distesa grigia sotto di me; e il sole lucente, e il cielo azzurro. Respiravo di nuovo l'aria pura, e ogni pericolo era solo un vago ricordo. Sì, mi dissi, oltre le grigie nuvole c’è sempre il cielo azzurro.

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