domenica 12 aprile 2009

Non lo so

Correvo nel buio, calpestando qualcosa che solo l’intuizione poteva suggerirmi essere un pavimento; in realtà era pura ombra, e l’oscurità che mi avvolgeva era priva di aria: non potevo respirare. Ma non ne avevo bisogno. Ero in equilibrio con il mondo e la materia. Il mio corpo era solo una macchina semovente di cui percepivo i lontani passi e le remote contrazioni. Sentii due possenti mani afferrarmi ai fianchi e per le braccia, tirandomi indietro, impendendomi di avanzare oltre. Non me ne stupii; sapevo che qualcosa voleva fermarmi. Non dovevo più avanzare. E quelle due braccia di quercia non me lo permisero. Venni sollevato in aria e spinto contro il soffitto, e le braccia mi lasciarono andare. Non caddi: il soffitto era il suolo. E si muoveva. Vi strisciai sopra, scoprendolo pieno zeppo di crepe e incrinature. Potei udire un verso di qualche animale che aveva gran poco di naturale. Non so dire perché lo classificai tra le voci animali, dato che di vivente non aveva nulla. Il suolo cominciò a scrostarsi e ne caddero frammenti seghettati e incandescenti. Salivano: la gravità era quindi rimasta immutata; ero mutato io. Gli spazi che si andavano formando sotto di me lasciavano intravedere una pelle squamosa di un rosso infuocato e rovente che potevo toccare senza provare dolore; sentivo invece voci sommesse e urlanti, grida di dolore e di paura, di strazio per la malaugurata sorte, e rimbombavano nei timpani come in grossi tubi di ferro. Vidi un occhio, bianco, enorme, profondo. Ci fissammo a lungo, mentre la creatura perdeva il suo strato superficiale. E ancora vibrò nell’aria quel lamentoso suono che potei udire con tutto me stesso, con ogni mia estremità. Capii ciò che voleva. Ero sul suo capo; ora non più. Vedevo il suo ventre, in piedi sul terreno d’ombra, e posai la mano su di lui, mentre mi fissava, col suo collo lunghissimo, attorcigliato e ingarbugliato attorno a me, mi fissava, con gli occhi della notte; la mia mano emise un fulmine e la creatura si accasciò a terra. Sembrò morta; se lo era, rinacque sotto le spoglie di un uccello bianco dal becco e dalla coda neri, se ne volò via, portando con sé l’oscurità, e rimasi sdraiato, su un nuovo prato di luce bianca senza timori e senza angosce.

Nessun commento:

Posta un commento